Massimo Gaggi, Corriere della Sera 5/1/2008, 5 gennaio 2008
DAL NOSTRO INVIATO
NEW YORK – Il terremoto dell’Iowa scuote il partito democratico – con la candidata dell’«establishment» Hillary Clinton battuta sia da Obama che da Edwards – ma anche, e soprattutto, i repubblicani. Il trionfatore Mike Huckabee non è solo un pastore battista che non potrà ripetere in New Hampshire l’impresa compiuta due giorni fa in uno Stato a maggioranza evangelica. Oltre che un leader della destra religiosa, l’ex governatore dell’Arkansas è anche un vero candidato anti-sistema: uno che disprezza Wall Street, che non cerca i soldi delle lobby e considera l’ostilità dell’ apparato repubblicano nei suoi confronti una medaglia da tenere bene in vista.
Quella di giovedì potrebbe anche essere solo una fiammata, ma sconfiggendo Mitt Romney in Iowa, Huckabee ha inferto un duro colpo ai tentativi del suo partito di portare l’ex governatore del Massachusetts alla Casa Bianca come nuovo capo della coalizione Reagan-Bush. Romney, che ha già investito nella campagna elettorale 70 milioni, soccombe a un candidato che ha raccolto solo 2,5 milioni di dollari e che, fino a qualche settimana fa, era considerato solo una comparsa. Evidentemente Romney non è riuscito a entrare in sintonia con l’elettorato né a far accettare del tutto la sua appartenenza alla chiesa mormone.
Ma c’è di più: col suo fiuto per gli umori di gente sempre più preoccupata per il peggioramento dell’economia e lo schiacciamento dei ceti medi, Huckabee ha portato nel campo repubblicano lo stesso messaggio populista della piattaforma democratica di Edwards: basta con i manager che, mentre percepiscono «bonus» da 100 milioni di dollari, tagliano il personale e riducono le tutele previdenziali e sanitarie dei dipendenti. Allo stesso modo Huckabee si scaglia contro le grandi corporation, bollate come il «club dell’avidità» e lamenta che i benefici della crescita economica degli anni della presidenza Bush siano andati «a Wall Street e non a Main Street », cioè alla gente comune.
Quello dell’ex governatore dell’Arkansas è sicuramente un messaggio demagogico e pieno di contraddizioni. La sua proposta di riforma della tassazione con la totale abolizione delle imposte sul reddito che dovrebbero essere sostituite dalla «fair tax» – una tassa del 23% su tutti i consumi – secondo molti economisti avrebbe effetti fortemente regressivi a danno dei più poveri.
Ben altro lo spessore professionale di Romney che ha centrato la sua campagna sui successi conseguiti sia come amministratore pubblico che come manager di imprese private. Tutto demolito da Huckabee che ha saputo catturare la simpatia di molti elettori suggerendo loro che è meglio fidarsi di uno come lui, il figlio di un pompiere, piuttosto che di un tecnocrate come Romney, figlio del presidente dell’ American Motors ed egli stesso fondatore di Bain Capital, un fondo di «private equity».
Se Romney non riuscirà a riprendersi dal colpo subito in Iowa, è probabile che a trarne vantaggio sia, più che Huckabee, John McCain. Il senatore dell’Arizona non è amato dall’apparato repubblicano, ma almeno è un fautore del mercato, del libero scambio. Ma, tanto tra i democratici quanto tra i repubblicani, gli spazi per i sostenitori del liberismo economico si vanno restringendo.
Quando Huckabee se la prende col «potere tirannico di Wall Street» e sostiene che il commercio, più che libero, deve essere corretto, non fa un salto nel buio. Si basa su sondaggi come quello del
Wall Street Journal e dalla Nbc: per il 58% degli americani la globalizzazione ha fatto soprattutto danni; solo il 28% pensa che il suo impatto sia stato positivo. E – sorpresa – progressisti e conservatori la vedono quasi allo stesso modo: il giudizio negativo sulla globalizzazione accomuna il 63% del democratici e il 55% dei repubblicani.
Con l’economia in frenata (i dati dell’occupazione di dicembre pubblicati ieri sono i peggiori degli ultimi tre anni), i venti di recessione e la crisi del mercato immobiliare, il rischio che la campagna elettorale sia segnata da una deriva populista non è affatto trascurabile. Per evitarla servirebbe una guida se non forte, almeno credibile: invece, con Bush alle corde e il Congresso diviso, gli Usa oggi soffrono proprio di una crisi di leadership.
Massimo Gaggi