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 2008  gennaio 03 Giovedì calendario

Le insalate di Pitagora e i gelati di Leopardi. Corriere della Sera 3 gennaio 2008. Che rapporto corre tra il cibo e i filosofi? Se si esclude Pitagora che fu un vegetariano accanito e, secondo talune tradizioni, viveva per lunghi periodi di solo latte, gli altri presentano stravaganze e tanta normalità

Le insalate di Pitagora e i gelati di Leopardi. Corriere della Sera 3 gennaio 2008. Che rapporto corre tra il cibo e i filosofi? Se si esclude Pitagora che fu un vegetariano accanito e, secondo talune tradizioni, viveva per lunghi periodi di solo latte, gli altri presentano stravaganze e tanta normalità. Kant ebbe un cameriere che fungeva anche da famiglio e diventò vecchio con lui: il poveruomo doveva servire pranzi ai quali partecipavano più di tre persone e meno di nove, giacché il padrone invocava all’uopo i numeri di muse e grazie. Tommaso d’Aquino era obeso e, per consentire al dottore della Chiesa pranzi decenti, in più di un caso i confratelli tolsero un buon semicerchio dal tavolo in modo che la pancia non impedisse agli arti superiori di giungere alle scodelle. Nietzsche viveva modestamente, era scapolo e girovago: consumava i suoi pranzi in trattorie popolari. Leopardi ebbe notevoli problemi con l’intestino ed era goloso di gelati e caramelle. Jacques Maritain, alla fine del pranzo tirava per gioco alla moglie Raïssa la mollica del pane. E per testimonianza personale posso scrivere che Ludovico Geymonat era goloso di formaggio grana e gradiva alla fine «un bel bicchierino di grappa», gioia sovente bloccata dalla moglie Gisèle, che a tavola lo controllava come un segugio. Sono alcuni esempi tra i mille possibili. Ma se non si considerano talune eccezioni – è il caso di Aristippo di Cirene, il fondatore della scuola cirenaica, edonista convinto – è difficile trovare i filosofi alle gozzoviglie, caso mai li si coglie vicino a un forno, come capitò a Eraclito. Restano comunque sempre buone forchette e mostrano anche golosità innocenti. Tra gli italiani è il caso di ricordare Emanuele Severino che è un eccellente intenditore di vini e ama il cervo (soprattutto con polenta); quindi il «risotto alle cinque carni» di Giovanni Reale, da lui stesso ideato, che richiede ai commensali tempi di smaltimento lunghi e difficoltosi. Parlando di tale materia, non si può tacere il nome di Tullio Gregory, degno della palma. Non soltanto da lui si può assaggiare il miglior foie gras di Roma, innaffiato con champagne di categoria, ma egli vi conduce sempre in qualche paradiso del gusto dove la cucina sembra aperta solo per lui e in attesa dei suoi ordini. Certo, vi sono controindicazioni: potrebbe capitare, per esempio, che egli apra un contenzioso con l’oste sul grana, che magari vorrebbe di pianura e invece gli è servito di collina ecc. ecc. Gregory, in ogni caso, è la corte di cassazione del giudizio gastronomico. Se tra i filosofi bisogna cercare delle eccellenze culinarie con la lanterna, così come Diogene di Sinope faceva con l’uomo, i letterati si presentano più goderecci. A cominciare da Petronio che nel Satyricon, in particolare nell’episodio della Cena di Trimalcione, offre la più completa e deliziosa apologia delle abbuffate di ogni tempo. Boccaccio nel Decameron parla di «una contrada che si chiamava Bengodi, nella quale si legano le vigne con le salsicce... et eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavano genti che niuna altra cosa facevano che far maccheroni e ravioli, e cuocerli in brodo di capponi...». inoltre difficile dire se Casanova amasse più il cibo o le donne. Di certo nella Storia della mia vita gli amplessi si alternano alle gioie del palato: conosciamo in tal modo le accademie maccheroniche di Chioggia, sorta di circoli – soprattutto sedi di grandi mangiate – dove gli affiliati si sfidavano in tenzoni poetiche improvvisate sul tema dei maccheroni. Anche nel carcere dei Piombi l’illustre Giacomo si concede i piaceri della tavola: «Il giorno di San Michele, Lorenzo venne nella mia cella di buon mattino con una gran pentola di maccheroni bollenti. Misi subito sul fornello il burro per fonderlo e preparai i due piatti spargendovi sopra il formaggio...». D’Annunzio definì il culatello «suprema squisitezza della razza porcina» e Bacchelli riusciva a gustare – capitò una volta al Premio Bagutta e Montanelli lo vide – una scodella con occhi di vitello conditi. Giovanni Arpino, del quale lo scorso dicembre ricorreva il ventesimo anniversario della scomparsa, era ghiotto di rognone trifolato. Quanto alla cucina futurista, forse è meglio non trattarla. Sappiamo però che Marinetti provò fremiti e piaceri in un ristorante tradizionale torinese e lo ribattezzò «Sollazzo gastrico ». Il nome, subito adottato, è giunto sino ai nostri giorni. ARMANDO TORNO