Il Giornale 03/01/2008, pag.27 Cesare G. Romana, 3 gennaio 2008
Guccini: "L’Eskimo? Macché divisa. Lo comprai contro il freddo". Il Giornale 3 gennaio 2008. Milano - Francesco Guccini l’ha sempre detto, con quel suo vocione tonante e l’aria tra il serio e il faceto: «Io il Sessantotto l’ho fatto nel Sessantasette, poi basta»
Guccini: "L’Eskimo? Macché divisa. Lo comprai contro il freddo". Il Giornale 3 gennaio 2008. Milano - Francesco Guccini l’ha sempre detto, con quel suo vocione tonante e l’aria tra il serio e il faceto: «Io il Sessantotto l’ho fatto nel Sessantasette, poi basta». Che, tradotto, significa: le idee sono una cosa, le etichette un’altra cosa, e dunque smettetela di appiccicarmele addosso. Adesso il decano dei cantautori gauchistes - classe 1940, sessantotto anni a giugno - chiarisce ancor meglio l’idea, e, da spirito libero, lo fa in un’intervista a una testata che proprio di sinistra non è, trattandosi di Charta minuta, mensile vicino a Gianfranco Fini che al quarantennale del Sessantotto dedica un numero speciale. «Più che testi di politica - dice l’autore di Eskimo - a quell’epoca leggevo poesia: non tanto Marx e Marcuse, quanto Jorge Luis Borges e Omar Kayyam, che infatti citavo in una canzone dell’epoca. E molti autori americani: Dos Passos, Steinbeck, Caldwell, Hemingway, Kerouac, Salinger». Nonché ovviamente Bob Dylan, il poeta in musica difficilmente inscrivibile in una fazione, influenzato com’era sia da Dante e dalla Bibbia, sia da Rimbaud e Blake, sia da Ginsberg e dai grandi beatnik: eravamo dylaniani fino al midollo, fu lui, non Marcuse, a farci scoprire la contestazione studentesca e la canzone di protesta». Ma l’eskimo, allora? L’indumento mutuato dai portuali genovesi era diventato l’uniforme della gioventù politicizzata, ma lui taglia corto: «Lo comprai a Trieste, ero là per il servizio di leva e faceva un freddo boia: lo usavo non certo come una divisa, ma come un cappotto che teneva caldo e costava poco». E infatti «portavo solo un eskimo innocente - canta Guccini appunto in Eskimo, che è una delle sue canzoni più intense - dettato solo dalla povertà/non era la rivolta permanente». E oggi chiosa, evocando Giovanni XXIII, Jan Palach, le utopie d’allora ma alla sua maniera, più esistenziale che politica: «Direi che il Sessantotto è stato il proseguimento di una vicenda umana, non soltanto mia, ma di tutta quella generazione che veniva dagli anni Cinquanta, piena di desiderio, a volte forse inconscio, di cambiamento. Dunque, prima che politico, direi che il Sessantotto fu un fatto propriamente umano». Da vivere tuttora, nella memoria, in chiave appunto esistenziale, un po’ come Guccini ha fatto con una sua canzone sul Che, evocato in un disco di qualche anno fa come icona d’una giovinezza che se n’è andata e dunque va comunque rimpianta. E non solo: «C’è un ideale libertario che è sempre esistito nell’uomo e non ha colori o etichette, non può essere fatto proprio da un’ideologia e va ben oltre gli schieramenti di destra e sinistra», dice il cantautore emiliano. L’intervista gucciniana, in un momento mediatico in cui quello di fare le pulci alle scelte politiche dei cantautori pare divenuto un giochino alla moda, non mancherà di suscitare polemiche tra i duri e puri da un lato, legati a un’idea dogmatica della politica, e dall’altro i più laici, per lo più fedeli alle loro idee di sempre, ma capaci d’una visione più dialettica: come furono i De André e i Gaber, e come sono i Paoli, i De Gregori, i Dalla - di sinistra, certo, ma «non marxista», si descrive Lucio -, che senza ripudiare le loro opinioni sono capaci di ascoltare anche punti di vista diversi, rispettandoli e magari cogliendone il meglio. Ecco dunque un Gaber che per trent’anni mette sotto accusa le inadempienze e le ambiguità della sinistra cui peraltro appartiene, un Paoli che si dice disposto ad appoggiare l’iniziativa musicale d’un amico di centrodestra «non per come la pensa ma perché è una persona per bene, non sembra neppure un politico», spiega. E ancora un De Gregori che non lesina critiche «da sinistra» al suo amico Veltroni, e un Fossati che rivendica la non politicità d’una sua canzone adottata dai Diesse come sigla d’un loro convegno. Transfughi? No di certo: semmai, semplicemente artisti, direi per la pluridecennale consuetudine che ho con molti di loro. Cesare G. Romana