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 2007  dicembre 26 Mercoledì calendario

MANGIARE

sarà un LUSSO. L’espresso 26 dicembre 2007. Caro pasta e tesoretto: sulla tavola che ci metto? Con questo slogan in rima lo scorso settembre erano scese in piazza diverse organizzazioni di consumatori. Obiettivo: lo sciopero della pasta. Il rincaro autunnale dei prodotti alimentari è stato repentino e, per il grande pubblico, mal sopportato, dopo la stangata fiscale e l’annuncio di un ulteriore aumento delle bollette domestiche. A farsi sentire non sono stati solo gli aumenti del prezzo del piatto nazionale (7 per cento dall’inizio dell’anno secondo i dati Eurostat, 4,5 per Federalimentari), ma anche quello di pane, cereali, latticini e carne. Agli italiani è andata tutto sommato bene. Nel resto d’Europa, quest’anno gli aumenti dei generi alimentari sono stati ancora più sostenuti: una media del 4,3 per cento, ben oltre il livello dell’inflazione (ferma al 3,1 per cento) con la categoria dei latticini in crescita dell’11 per cento e quella di pane e cereali di oltre il 7. Per non parlare poi del resto del mondo, dagli Stati Uniti all’Africa, passando per il Sud America e l’Asia, dove i prezzi dei cereali hanno visto aumenti fino al 40 per cento. In Cina il prezzo della carne di maiale e delle uova è salito addirittura del 50 per cento. Il problema ha dimensioni globali. E ha a che fare con una girandola di fattori - dalle politiche agricole alle speculazioni finanziarie, dall’aumento della domanda mondiale di cereali all’uso dell’etanolo come carburante alternativo, dai cambiamenti climatici alla diminuzione delle scorte di cibo - che portano alla stessa conclusione: in futuro mangiare ci costerà sempre più caro. «Non credo che la tendenza si arresterà», spiega Jean Bourlot, responsabile delle materie prime agricole della banca d’investimento Morgan Stanley. Basta dare uno sguardo all’andamento delle materie prime alimentari nell’ultimo anno. Grano e mais sono gli imputati principali. Lo scorso settembre il prezzo del grano ha raggiunto i 400 dollari a tonnellata, un record storico e il doppio rispetto a maggio, quando fluttuava intono ai 200 dollari. Dall’inizio del 2007 è aumentato del 75 per cento, secondo i dati della Morgan Stanley. Discorso simile vale per il mais, che è schizzato in alto nel febbraio scorso, sfiorando i 200 dollari sulla scommessa di un aumento della domanda (visto il boom dell’etanolo americano), ripiegando un po’ nel corso dell’anno, ma costando sempre il 50 per cento in più dell’anno precedente. La situazione è talmente preoccupante che il segretario generale della Fao, Jacques Diouf, ha avvertito a metà dicembre che se i raccolti mondiali dell’anno prossimo saranno danneggiati dalla situazione climatica, il mondo non avrà abbastanza riserve per fare fronte alle sue necessità alimentari. L’Ifpri (Istituto internazionale per la ricerca sulle politiche alimentari) ha annunciato che i prezzi dei cereali continueranno a crescere tra il 10 e il 20 per cento almeno fino al 2015. E per sottolineare la portata dirompente del fenomeno, gli economisti hanno coniato anche un nuovo termine: "agflazione", un gioco di parole tra agricoltura e inflazione, che indica quella parte dell’aumento dei prezzi alimentari dovuto all’aumento della domanda dei consumi umani e delle energie alternative che ricade sul consumatore finale. Il 2007 non è stato un anno positivo per l’agricoltura. Siano le prime avvisaglie dei tanto temuti cambiamenti climatici (probabile ma non certo) oppure una congiuntura poco favorevole (meno probabile, secondo gli esperti), i raccolti dei maggiori esportatori mondiali, dall’Australia, colpita dalla seconda siccità consecutiva, all’Argentina all’Ucraina, sono stati deludenti. Contemporaneamente, le riserve di grano hanno segnato il loro livello più basso degli ultimi trent’anni. E questo nonostante la produzione mondiale di cereali abbia nel suo complesso raggiunto, scrive il settimanale britannico "The Economist", 1,66 miliardi di tonnellate, la più alta mai registrata. Eppure non basta. I paesi in via di sviluppo consumano sempre di più. E questo c’era da aspettarselo. Ma non è tanto la quantità di cereali ingoiata da indiani e cinesi che preoccupa. Piuttosto quella digerita dai loro animali: maiali, mucche e pecore. Occorrono tre chili di cereali per produrre un chilo di maiale, otto per un chilo di manzo. L’aumento della ricchezza mondiale, che consente a circa 80 milioni di persone in più all’anno di affacciarsi ai banchi dei mercati, si traduce in aumento dei consumi di carne e proteine. Oggi in Cina si mangia un etto di carne al giorno per persona rispetto ai 66 grammi di qualche anno fa. Moltiplicato per almeno 500 milioni di persone, le cifre diventano astronomiche. Per adesso abbiamo visto aumenti spettacolari soprattutto per cereali, mais e, quest’anno, riso. Dall’anno prossimo, uova e carne potrebbero cominciare a pesare di più sul portafogli. «Tra cinque o dieci anni la carne diventerà un bene di lusso per tutti», pronostica Bourlot. Tra le cause principali di questi aumenti ci sono anche i nuovi combustibili biologici, a partire dall’etanolo, su cui l’amministrazione Bush ha pesantemente investito a partire dal 2005. Lo spettacolare aumento del prezzo del mais nel 2006 è stato infatti il riflesso delle aspettative dei mercati verso l’utilizzo alternativo della pannocchia. I contadini americani, i principali beneficiari di quest’aumento mondiale dei prezzi alimentari, ne hanno approfittato per produrre sempre maggiori quantità di mais a scapito degli altri raccolti. Il prezzo è schizzato in alto, aiutato anche dalle proteste per l’aumento del prezzo delle tortillas brasiliane, per poi ridiscendere almeno in parte, una volta appurato che le piantagioni americane erano in grado di produrre abbastanza mais non solo per l’etanolo, ma anche per il consumo alimentare e perfino per l’esportazione, spiega Abdolreza Abbassian, il segretario del gruppo intergovernativo per i cereali della Fao. Ma forse la causa principale di questa congiuntura economica, e il motivo che rende gli esperti pessimisti su un possibile cambiamento di rotta, è la diminuzione delle riserve mondiali delle materie prime. Diverse le ragioni: l’aumento dei consumi dell’uomo e l’utilizzo del cibo per scopi alternativi, ma anche il cambiamento delle politiche agricole di questi ultimi cinque anni. La produzione in eccesso degli anni Ottanta, con migliaia di chili di cibo distrutto per non superare le quote assegnate dalla Ue, è un ricordo del passato. La recente allocazione dei sussidi europei sulla base di criteri solo qualitativi sta disincentivando la produzione meramente quantitativa di materie prime alimentari, spingendo i contadini a seguire con più attenzione e in tempo reale l’andamento del mercato, evitando l’accumulo inutile e costoso di scorte. A regolare cosa finisce in tavola sono sempre meno i governi e sempre più il mercato, che però non reagisce nei tempi e nei modi sperati. «Si pensava che il mercato si sarebbe autoregolato, ma a nessuno è venuto in mente che i prezzi di tutte le materie prime schizzassero in alto contemporaneamente», racconta Abbassian. Il problema è che i prezzi delle commodity alimentari stanno diventando inevitabilmente correlati tra loro, spiegano gli analisti. Se aumenta il prezzo della soia, automaticamente cresce anche quello del granoturco, solo per il fatto di essere un efficace sostituto alimentare, anche se la quantità prodotta e la disponibilità non giustificano di per sé un aumento. Inoltre, non è facile regolare la produzione in tempo reale con l’andamento dei mercati. Secondo l’Ifpri un aumento del 10 per cento dei prezzi riesce a ottenere soltanto una crescita dell’1-2 per cento della produzione. Quest’anno i ministri dell’agricoltura dei 27 hanno deciso di intervenire e, alla fine di settembre, hanno sospeso i sussidi al riposo obbligatorio dei campi (politica nata in tempi di sovraproduzione) per cercare di aumentare la coltivazione di cereali di 12-15 milioni di tonnellate, pari al 5 per cento del totale europeo (260 milioni di tonnellate). Per contrastare invece l’ascesa del prezzo del latte e dei suoi derivati, la Commissione europea ha proposto agli Stati membri di aumentare del 2 per cento le quote prodotte annualmente. Ma non è detto che gli allevatori francesi ce la facciano a produrre di più. Come se trovare un equilibrio tra le bizzarrie dei mercati e gli interessi agricoli nazionali non fosse abbastanza difficile, anche la speculazione finanziaria sta giocando un ruolo crescente nel dirigere i prezzi mondiali. Prodotti finanziari fino a qualche tempo fa sconosciuti come gli Etc (obbligazioni che hanno come sottostante l’andamento del prezzo di una materia prima o di un paniere di materie prime) e gli Etf (fondi che raccolgono questo tipo di obbligazioni) sono diventati popolari perché offrono una rosea alternativa agli andamenti deludenti dei mercati azionari di mezzo mondo. Un maggiore interesse degli investitori si traduce in un ulteriore aumento dei prezzi. Questa nuova fase economica non ha soltanto ripercussioni negative. Sta provocando anche un sottile riequilibrio di potere tra paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo. L’aumento dell’inflazione causato dalla crescita dei prezzi degli alimentari ha spinto le banche centrali di paesi come Cina, Cile e Messico ad aumentare i tassi di interesse. E questo nel momento in cui gli Stati Uniti hanno cominciato a tagliarli di nuovo, per evitare una recessione conclamata. La conseguenza è che molti investitori stanno abbandonando i mercati tradizionali per portare i propri soldi in paesi che ne hanno in fondo più bisogno: dall’Africa al Sud America. Non solo. Nonostante siano i più poveri a subire le conseguenze di qualsiasi rincaro internazionale dei prezzi, non saranno soltanto i contadini americani a beneficiare di vendite più proficue. Esportatori di cibo come l’India e il Sudafrica potrebbero, dopo anni di declino delle quotazioni delle commodity, approfittare finalmente di raccolti più sostanziosi.
FEDERICA BIANCHI