Libero 31/12/2007, pag.27 Guido Bosticco, 31 dicembre 2007
Il duca del jazz. Libero 31 dicembre 2007. «Sonny teneva sempre d’occhio l’ingresso (il Kentucky era un seminterrato)
Il duca del jazz. Libero 31 dicembre 2007. «Sonny teneva sempre d’occhio l’ingresso (il Kentucky era un seminterrato). Era pronto a dare il benvenuto a qualche cliente che sembrasse facoltoso. E se riusciva a intercettarlo lo presentava al direttore dicendogli: ”Questo è un mio amico, trattalo coi guanti”. Con ogni probabilità il tipo gli avrebbe scucito qualcosa. Potevamo lasciare il club con un centinaio di dollari in tasca per ciascuno. Ma giunti a casa li avevamo già perduti tutti, perché facevamo il giro dei locali per vedere che cosa succedesse. E quando entravamo, le pollastrelle si alzavano e gridavano: ”Sonny, tesoro!”. E lui, quando le sentiva gridare, spiccava un salto e diceva: ”Pago da bere a tutti!”». A New York, nel 1923, toccava al batterista Sonny Greer la stessa solfa che riguarda ogni gruppo jazz degno di rispetto: la notte è sempre troppo lunga e la paga è sempre troppo stretta per riuscire a portarsela a casa integra. Solo che la maggior parte dei jazzisti che riempiono le notti dei club di tutto il mondo, poi si fermano lì, alla vita un po’ bohémienne e un po’ randagia che impone il cliché del musicista non d’accademia. Figurarsi poi nell’America degli anni Trenta e Quaranta, tra gangster e proibizionismo. Figurarsi poi ad avere la pelle nera. Toccava restarci in quel cliché e magari anche fumare erba o farsi di eroina. Sembrava un destino per quegli artisti che stavano facendo la storia della musica moderna, ma che nella loro vita non riuscivano a mettere in fila due giorni normali.Dalle sbronze al papillonInvece qualcuno ce l’ha fatta, qualcuno ha messo su il papillon e il frac, si è seduto al piano ed ha ”staccato” un quattro quarti davanti ad una platea osannante di bianchi, in un super teatro della Grande Mela, tipo la Carnegie Hall.Edwar Ellington, detto Duke, il Duca, è stato uno di questi. Duke è più di un pianista jazz, più di un compositore, più di un band leader. tutte queste cose messe insieme e soprattutto è il simbolo di un’eleganza colta e severa, ma simpatica al pubblico, è il simbolo di tutto ciò che il jazz degli anni Quaranta aspirava ad essere. Duke Ellington è stato uno dei più importanti musicisti del Novecento. Punto e basta. Ma prima di diventarlo è stato anche lui un jazzista da bicchierate di whisky e notti a suonare a comando una ballata per l’ultima coppietta al bancone. Leggere oggi la sua autobiografia, appena ristampata da Minimum Fax e intitolata ”La musica è la mia signora” (pp. 462, euro 17), è davvero uno spasso.Anche il Duca, ha cominciato giovanissimo con un trio a scroccare ingaggi nella Washington in cui è nato. Anche lui, certo, ma non per molto: presto il carisma del leader è uscito fuori, nella rapidità con cui componeva i brani da suonare la sera stessa, nella strategia di marketing, nella capacità di selezionare i suoi maestri prima e i suoi musicisti poi, come i celeberrimi Johnny Hodges, Cootie Williams, Paul Gonsalves, per dirne alcuni. E proprio i ritratti dei ”suoi” uomini, costituiscono l’anima del libro di Duke. A cominciare da uno dei suoi maestri di gioventù, quel Will Marion Cook, detto Dad, che una volta lesse sul giornale una recensione dopo un suo concerto alla Carnegie Hall: «Il critico disse che Will Marion Cook era decisamente ”il più grande violinista nero al mondo”. Dad Cook allora prese il violino e andò a trovare il critico al giornale. ”Molte grazie per la recensione” disse ”lei hai scritto che sono il più grande violinista nero al mondo”. Detto ciò, Dad Cook prese il violino e lo sfasciò contro la scrivania del critico. ”Io non sono il più grande violinista nero del mondo” esclamò, ”io sono il più grande violinista del mondo!”. Girò i tacchi e lasciò lì il suo strumento sfondato, e non imbracciò mai più un violino in vita sua».Ma c’è spazio anche per i tributi ai grandi colleghi: «Quando, una volta, una signora del pubblico lamentò che non riusciva a capire quello che stava suonando Miles Davis, lui rispose con una delle sue sagge sentenze sull’arte: ”Io ho impiegato vent’anni di studi e di esercizi per fare quello che sto facendo in questo concerto. Come può pensare, lei, di ascoltare e di capire in cinque minuti?”. Quanto era vero, era vero e universale. A Miles!».E ancora, il ritratto fulmineo di Will Cook: « sempre stato, in potenza, la migliore prima tromba che si potesse scritturare. Ma ogni tanto, per lui, le avventure sentimentali prevalgono sugli impegni con l’orchestra in giro per il mondo».Negli anni a seguire, quando la fama cominciava a crescere, le storie di vita sono spassosissime, come quella volta a Chicago, dove i musicisti in cartellone venivano sistematicamente taglieggiati dalla mala, quando due giovani cercarono di scroccare a Duke 200 dollari. Lui lo disse a Phil, il cassiere dell’hotel, che lo disse a Joe Fusco che gli passò il boss Owney Madden al telefono, il quale gli disse: «Ci penso io, stai tranquillo». Il giorno dopo, Duke fu accolto a teatro con grandi inchini e riverenze. Pare che Madden avesse chiamato Al Capone, che aveva ordinato: «Duke Ellington non dev’essere disturbato in tutta la zona».Si può azzardare che, insieme con i Berliner Philharmoniker e poche altre formazioni, la big band di Duke Ellington sia stata una delle più grandi macchine da musica del Novecento. La perfezione estetica. Il suono. E la vista. Quelle scalinate dalle quali scendevano a turno i solisti per posizionarsi di fronte all’unico microfono. Quelle scalinate sono rimaste un simbolo di perfezione stilistica, ritmica, musicale, artistica.L’avventura di una grande band E questa autobiografia, riportata in stampa dopo quasi trentacinque anni, grazie alla cura di Franco Fayenz, raccoglie mille storie di uomini, di rivalità, di amori, di solisti e di gregari. Parla dell’incontro del Duca con Dio e con la musica sacra. Parla di suoni speciali, suoni ricercati, suoni personali, stili, accenti, movimenti, abiti, pettinature, ingaggi, sbronze, sorrisi: una grande band è fatta di tutte queste cose. Una grande vita da artista è una vita di incontri e di facce da ricordare, capaci di entrare ed uscire dalla memoria come le note entrano ed escono da un sax che scende una scalinata per raggiungere l’unico microfono sul palco. Guido Bosticco