Matteo Sacchi, Il Giornale 2/1/2008, 2 gennaio 2008
Lui, Mr. James Bond, è il mito spionistico supremo, l’agente di carta e di pellicola, dotato del sorriso più smagliante-ammaliante
Lui, Mr. James Bond, è il mito spionistico supremo, l’agente di carta e di pellicola, dotato del sorriso più smagliante-ammaliante. Quello che nessun epigono, per quanto ben scritto o sceneggiato, è ancora riuscito a scalzare dal trono dell’immaginario. La sua sigla 007, è sinonimo di quel potere di vita, morte e seduzione che ognuno sogna di possedere almeno una volta nella vita, soprattutto se corredato da Aston Martin. I suoi gadget mortali, al limite del credibile, sono stati, quando possibile, scopiazzati dagli agenti in carne, ossa e modesta auto civetta. Quando ci si interroga su questo successo, che si è trasformato in una gran buona pubblicità, di durata quarantennale, per i servizi segreti inglesi, non sempre è facile individuare da dove Ian Fleming abbia pescato gli ingredienti della sua miscela magica. Tolta la fantasmagorica fantasia dell’autore, che è la componente più evidente del cokctail letterario che ci è stato servito in migliaia di pagine, quello che fa innamorare del personaggio è quel tocco di verosimile, quella robustezza dell’ordito che impedisce che la trama scivoli nella farsa grottesca. E quel realismo Fleming l’ha costruito sulla sua esperienza diretta nei servizi segreti della marina inglese durante la Seconda guerra mondiale. Quando davvero, molto più che nella Guerra fredda o nel mondo post 11 settembre, le autorizzazioni ad uccidere erano concesse senza pensarci due volte. Abbastanza perché negli anni si sia molto ricamato su quale fosse l’agente che più aveva ispirato l’allora comandante Fleming. In molti, a partire dal Times di Londra, hanno identificato come archetipo principe di 007 un estroso e insubordinatissimo ufficiale di marina, distintosi su tutti i fronti in cui erano possibili disperate azioni da commando: Patrick Dalzel-Job. E leggendo le memorie di Job, che verranno tradotte per la prima volta in italiano da Longanesi (saranno in libreria a febbraio con il titolo Dall’Artico al Reno), si ritrova molto dello stile del personaggio Bond. Dalzel-Job (1913-2003) prima della Seconda guerra mondiale era un orfano di guerra inglese che viveva con la madre e aveva la passione del mare. Abbastanza per spingerlo a prendere la patente nautica, per corrispondenza, e a costruirsi da solo una goletta miniaturizzata. Da lì a imbarcare l’anziana madre e partire senza equipaggio, e senza motivo apparente, per esplorare le coste della Norvegia il passo fu breve. Fu un’esplorazione lunghissima da cui Job, sempre di testa sua, estrasse lunghissimi rapporti che poi mandava all’ammiragliato; nei cui uffici, forse giustamente, si disinteressavano completamente dei fiordi e dei mari polari e cestinavano tutto. Peccato che nel volgere di pochissimo le navi inglesi si trovassero ad affrontare i nazisti proprio in quelle acque, nel disperato tentativo di arginare la loro avanzata nella penisola scandinava. Il «pazzo dei fiordi», uno dei pochissimi inglesi in grado di parlare e capire gli infiniti dialetti in cui si declina il norvegese, venne spedito in fretta e furia ad organizzare sbarchi, mimetizzare truppe, tracciare rotte e trattare con riottosi civili. Tutte cose che fece rispettando il minor numero di ordini possibile e rischiando di essere degradato, non fosse stato per il personale interessamento di re Haakon di Norvegia che vide in lui uno dei pochi britannici veramente interessati al destino del suo popolo, troppo fiero per arrendersi ai tedeschi e troppo civile per resistergli. Colpi di testa, successi, e gratitudine reale furono abbastanza perché i servizi inglesi decidessero di mettere questo giovane tenente di vascello a capo di un’operazione speciale via l’altra. Dalle motosiluranti che andavano a nascondersi nei fiordi, sino alle operazioni di infiltrazione seguite al D-day, che Job conduceva su una jeep stracarica e con una moto pieghevole legata al cofano...