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 2008  gennaio 02 Mercoledì calendario

Esercizio di aritmetica: se i giudici nel 2007 risultano aver fatto più sentenze del 2006, deciso più rinvii a giudizio, scritto più archiviazioni, e ridotto di 20 giorni la durata media dei loro processi, com’è che l’arretrato dell’ufficio Gip del Tribunale di Milano sembra essersi raddoppiato in un anno secondo le statistiche ufficiali? Perché la giustizia dà i numeri

Esercizio di aritmetica: se i giudici nel 2007 risultano aver fatto più sentenze del 2006, deciso più rinvii a giudizio, scritto più archiviazioni, e ridotto di 20 giorni la durata media dei loro processi, com’è che l’arretrato dell’ufficio Gip del Tribunale di Milano sembra essersi raddoppiato in un anno secondo le statistiche ufficiali? Perché la giustizia dà i numeri. E alla lotteria delle statistiche giudiziarie può accadere, come appunto segnala il casolimite di Milano, che i finti risparmi esibiti a monte ai cittadini contribuenti (ad esempio lasciando preda di gravi carenze di organico le nevralgiche cancellerie) a valle generino una clamorosa distorsione otticostatistica, il cui costo sociale viene fatto pagare ai cittadini utenti. Per forza che all’ufficio Gip, in vista dell’inaugurazione dell’anno giudiziario il 26 gennaio, i conti non tornavano: nella realtà l’arretrato è sceso da 29.000 a 23.000 procedimenti a carico di persone note, ma nella fiction della statistica ufficiale le tabelle ne vedono pendenti ben 44.000 solo perchè ne contano ancora 20.000 che invece sono già stati definiti dai magistrati. E le tabelle li contano perché, sebbene i giudici li abbiano già da tempo esauriti con provvedimenti di archiviazione, le cancellerie in sofferenza non sono ancora riuscite a registrarli, costrette come sono ad accantonare lo «scarico» di queste archiviazioni per concentrare tempo ed energie sui fascicoli più urgenti (come quelli con detenuti). Mette nero su bianco, in una relazione sui «maggiori investimenti» che «basterebbero a innestare un circolo virtuoso», il capo dei gip milanesi, Filippo Grisolia: «La continua emorragia di risorse umane del personale amministrativo», oltre ad altri «notevoli danni all’efficienza dell’ufficio », ha «creato la semiparalisi di alcuni uffici, quali ad esempio quelli addetti alle archiviazioni». Così, il fatto che l’arretrato sembri crescere, con pendenze oggi a quota 43.947 contro le 28.738 di 12 mesi fa, non contrasta con «il rilevante aumento di produttività dei giudici», ma dipende dal «depotenziamento dell’ufficio centrale che dall’inizio del 2006 non è stato in grado di tenere il passo con la registrazione dei provvedimenti di archiviazione già emessi» dai giudici: «sicché allo stato può ritenersi, in base a un calcolo grossolano, che circa 20.000 di questi provvedimenti siano in attesa di essere registrati, e quindi "esauriti" a tutti gli effetti». La controprova sta in un esempio invece positivo: è bastato il prestito di «un sottufficiale messo temporaneamente a disposizione dal Questore» per «eliminare l’arretrato relativo ai dissequestri»: e quindi per non far continuare a spendere invano allo Stato le centinaia di migliaia di euro dei compensi ai custodi di auto e beni sotto sequestro da una vita. Può esistere un’azienda che abbia (peraltro vaga) consapevolezza solIl personale in crisi I vuoti d’organico paralizzano le cancellerie, che non riescono a far fronte alle archiviazioni già decise dai magistrati La controprova E’ bastato il prestito di un impiegato in più per assorbire l’arretrato dei dissequestri e far risparmiare molto allo Statotanto di quanta merce all’ingrosso entri nei propri stabilimenti, ma ignori che fine facciano i propri prodotti? Per sbalorditivo che sia, l’amministrazione della giustizia versa proprio in questa materiale ignoranza dell’esito del proprio processo produttivo. Con la conseguente difficoltà di autocorreggersi, di migliorarsi, di distribuire meglio le risorse. Non solo: in mezzo ai numeri inattendibili, c’è la vita delle persone. Per esempio di queste 20.000 che, in passato indagate ma nella realtà oggi già prosciolte dai giudici, formalmente si ritroveranno ancora indagate fino a quando la loro archiviazione non verrà registrata. E un analogo costo sociale pagano, per restare a un altro caso-limite a Milano, le 300.000 persone che avevano sporto alle forze dell’ordine altrettante denunce contro ignoti per furti d’auto o in casa. Per le statistiche, 300.000 denunce in più. O anche 300.000 in meno. Dipende. Perchè per molti mesi queste denunce sono sì esistite fisicamente, in carta e inchiostro nell’ufficio che in Procura registra appunto le denunce di reato dopo le indicazioni impartite dai procuratori aggiunti; ma formalmente non sono mai esistite, e quindi non sono ancora state prese in carico e coltivate dalle indagini di alcun pm, perché mai sono state registrate nel Registro Generale informatico. Perché? Perché a fare quello che pomposamente è chiamato «servizio di data entry», ovvero a immettere i dati nell’archivio elettronico della Procura, invece dei 22 cancellieri che facevano questo lavoro anni fa, oggi in servizio effettivo si ritrovano solo 7 impiegati. Che, come ovvio, nella registrazione delle denunce danno la priorità a quelle contro persone identificate. Così la massa di denunce contro ignoti, che una città come Milano produce al ritmo di 500 al giorno, periodicamente diventa una montagna dalla vetta non più scalabile. Alla fine dal ministero, come in altri casi nel passato, è arrivato un mini stanziamento- extra per appaltare a una ditta privata il servizio di assorbimento dell’arretrato da questo limbo. Dove, nel frattempo, il cittadino ha comunque già pagato una «tassa» senza saperlo. Se la denuncia non viene registrata, infatti, non parte l’indagine; ma se non inizia, nemmeno può finire con quel certificato di «chiusura indagine » necessario a ottenere dalla propria assicurazione il risarcimento per il furto in casa o l’auto rubata. Un corto circuito che una previsione della terza «lenzuolata» delle liberalizzazioni si propone di neutralizzare, prevedendo che chi subisce un furto d’auto non debba più aspettare il certificato del Tribunale per ricevere il rimborso dall’assicurazione. Luigi Ferrarella E’ un mondo a suo modo affascinante l’universo delle «false pendenze » che distorcono l’attendibilità del dato statistico giudiziario: non noccioline, se nell’ultimo suo discorso da ministro della Giustizia l’ex Guardasigilli Castelli le quantificò (benchè periodicamente bonificate dalle ispezioni ministeriali ordinarie) addirittura tra il 5% e il 10% dei fascicoli in teoria pendenti. Ma le statistiche non si «sgonfiano » o «gonfiano» soltanto come effetto indiretto di carenze organizzative, prossime ad attenuarsi una volta a regime il nuovo sistema di Registro Generale promosso dal ministero, che entro il 2008 dovrebbe vedere i vari uffici giudiziari impegnati nella complessa fase della «migrazione » dei dati da una piattaforma informatica all’altra. Esistono anche gli «anabolizzanti» delle statistiche. C’è anche il consapevole «doping » dei numeri, praticato da singoli magistrati (e a volte interi uffici giudiziari) per far apparire maggiori i flussi di lavoro sulla cui base Csm e ministero poi parametrano periodicamente l’aumento o il taglio del personale e delle risorse, insomma la distribuzione di quei pani e pesci per i quali non c’è miracolosa moltiplicazione possibile, ma soltanto guerra tra poveri. Per una giornata nella quale un giudice o una Corte trattano 10 fascicoli, ci sono sedi che contano «1» udienza, e altre che invece segnano «10» udienze. E non è una barzelletta l’escamotage nel modo di trattare le cosiddette «perquisizioni negative», cioè le operazioni di prevenzione che come routine ogni notte le forze dell’ordine compiono senza trovare alcunché d’interesse da segnalare alla magistratura. Nella maggior parte delle Procure, pm di normale correttezza mettono queste segnalazioni negative al registro degli «atti che non costituiscono notizia di reato», e contestualmente le esauriscono con provvedimenti che si chiamano (di nome) e sono (di fatto) «di cestinazione »: atti che non contano per le statistiche, perché sono solo il capolinea di un semplice passaggio di carta. Ma ecco il trucco in alcune sedi giudiziarie: iscrivere le perquisizioni negative nel registro degli atti che costituiscono notizie di reato, e poi archiviarle, stavolta però con provvedimenti (le richieste del pm di archiviazione, i decreti del gip di archiviazione) che faranno statistica e a fine anno verranno buoni per far passare questi magistrati per degli autentici stakanovisti. Un obiettivo che il «furbetto del quartierino giudiziario» può centrare anche accaparrandosi quei procedimenti dai grandissimi numeri in quanto seriali nelle condotte ipotizzate ed esauribili con un solo provvedimento, «fotocopiato» poi però in una moltitudine di casi utili a ingrassare le statistiche. Nè è disinteressata l’accondiscendenza con la quale talune Corti d’Appello tollerano che alcuni difensori impugnino in secondo grado (cosa non prevista dalla legge) quelle condanne a sola pena pecuniaria che invece possono esclusivamente essere oggetto di ricorso in Cassazione. L’impugnazione, alla fine del tragitto del fascicolo e della non breve calendarizzazione dell’udienza, è ovviamente respinta. Ma se al difensore è utile perché i tempi di questo giochetto tra Appello e Cassazione possono divorare anche 12/18 mesi (cioè un terzo di tutta la prescrizione per alcuni tipi di reati), alle Corti d’Appello più disinvolte non dispiace perché l’obbligato «no» all’impugnazione (tempo impiegato a decidere: un nanosecondo) formalmente è una sentenza: e varrà dunque «1», esattamente quanto una grossa sentenza di un lungo e complicato processo, quando poi a fine anno sarà tempo di statistiche di produttività degli uffici. Il resto, a volte, lo fanno giornali e tv. Come quando, nel 2005, per giorni discussero del dato che voleva più omicidi a Milano che nella Napoli della faida di Scampia. Un dibattito che, benché nessuno avesse memoria di un selciato del Duomo ricoperto di cadaveri, finì solo quando qualcuno timidamente fece presente che nel distretto milanese la prassi, nel caso di dubbi sulle morti per cause naturali, era iscrivere il fascicolo formalmente come «omicidio volontario», ma solo allo scopo di poter fare l’autopsia, sciogliere i dubbi e subito archiviare. L. Fer.