Guido Olimpio, Corriere della Sera 31/12/2007, 31 dicembre 2007
WASHINGTON
Per il Secret Service americano è la «bolla». Per gli israeliani dello Shin Bet è il «diamante». Un guscio virtuale che doveva proteggere la Bhutto a 360 gradi. Un cordone di agenti pronti a fare da schermo e apparati elettronici per neutralizzare eventuali ordigni radiocomandati. Ma per funzionare avrebbe dovuto collaborare la stessa Benazir, evitando i contatti ravvicinati con il pubblico. Scelta impossibile per una leader populista impegnata in una campagna elettorale. Lei aveva persino respinto l’idea di piazzare un cubicolo in vetro anti-proiettile sul tetto della jeep. Inoltre la bolla o il diamante non sono imbattibili: gli attentati a Ronald Reagan e Yitzhak Rabin dicono l’esatto contrario.
Dalle immagini diffuse dalla tv però si comprende come siano state violate anche le più semplici regole di sicurezza. Una grave responsabilità condivisa dalla polizia e dallo stesso entourage della Bhutto. Uno dei presunti killer si avvicina a meno di due metri dal bersaglio, estrae una pistola e fa fuoco. Attorno al veicolo di Benazir la difesa è inesistente. I fotogrammi mostrano l’attentatore in mezza alla folla, quindi con l’arma.
Immagini che ricordano quelle dell’attentato a Giovanni Paolo II.
La polizia pachistana si difende sostenendo di aver concentrato la sua attenzione nell’area del comizio, schierando migliaia di agenti, tiratori scelti, cani anti-bomba, metal detector. Ma gli attentatori sapevano che non era quello il momento più propizio. Avevano buone informazioni e hanno studiato bene il piano. Per entrare in azione hanno atteso che la Bhutto si spostasse sulla jeep immergendosi nel mare dei sostenitori. La protezione, in quel momento, doveva passare a quattro team mobili per un totale di 26 poliziotti. Pochi per tenere a distanza i manifestanti. A loro dovevano aggiungersi uomini di fiducia del partito, selezionati e identificabili da un segno di riconoscimento particolare, deciso magari all’ultimo istante. Servivano anche gli osservatori, personale allenato a scrutare tra la folla e capace di cogliere movimenti strani. Invece tra il killer e Benazir vi era ben poco. Un vuoto che per i familiari della vittima equivale a una prova di complicità delle autorità.
Sono ancora le immagini a fornirci degli spunti. Gli attentatori dimostrano un grande sangue freddo: si fanno largo indisturbati e raggiungono il veicolo di Benazir. Si avvicinano da dietro perché ritengono sia la parte meno protetta. Il primo spara, il secondo agisce di copertura azionando una cintura esplosiva. Un attacco in tandem che ricorda quelli insegnati nei manuali dei terroristi: «Per uccidere un ambasciatore è sufficiente una pistola». Un’arma che si nasconde sotto gli abiti, così come la cintura da kamikaze. Tutto troppo facile. Inevitabile e legittimo pensare al coinvolgimento di qualche apparato. Nel migliore dei casi sapevano e hanno lasciato fare. Nel peggiore hanno avuto il ruolo di mandanti.