Luigi Spaventa, la Repubblica 31/12/2007, 31 dicembre 2007
«La tassa imposta alla popolazione del paese importatore sotto forma di maggiori prezzi a vantaggio degli esportatori stranieri (si parlava un tempo di tassa per lo sceicco, solo che oggi gli sceicchi si sono moltiplicati) è profondamente iniqua, perché è fortemente regressiva
«La tassa imposta alla popolazione del paese importatore sotto forma di maggiori prezzi a vantaggio degli esportatori stranieri (si parlava un tempo di tassa per lo sceicco, solo che oggi gli sceicchi si sono moltiplicati) è profondamente iniqua, perché è fortemente regressiva. Come ogni imposta indiretta, essa, in proporzione, percuote più pesantemente i redditi più bassi e si riduce gradualmente all´aumentare del reddito: i più ricchi neppure si accorgono degli aumenti dei prezzi dei carburanti, delle tariffe di trasporto, delle bollette della luce e del gas, del costo dei mutui; ai più poveri quegli stessi aumenti infliggono pesanti decurtazioni del reddito disponibile, e dunque di altri consumi essenziali. Questo è tanto più vero in Italia, ove la disuguaglianza è più pronunciata e i salari sono più bassi e ove i redditi di lavoro, e in conseguenza i consumi, sono cresciuti assai poco negli ultimi anni. E´ dunque legittimo chiedersi se e come questa iniquità possa essere alleviata senza dar luogo a un aumento dei costi del lavoro». il punto più significativo del seguente articolo di Luigi Spaventa (la Repubblica 31/12/2007): Si parla di «questione salariale». Impropriamente: più correttamente si dovrebbe parlare di una «questione» che riguarda tutti i redditi più bassi – diciamo sino a 20-25mila euro – e che si sostanzia nell´immiserimento dei loro percettori, siano essi salariati dipendenti o precari con diverse forme di contratto o pensionati. I paesi industrializzati, e l´Italia più degli altri, hanno subito una serie di shock, di cui alcuni non sono temporanei ma duraturi: un balzo all´insù dei prezzi dell´energia, delle materie prime, dei prodotti agricoli di base; e in più lo shock finanziario della crescita di un quarto del costo dei mutui a tasso variabile.Per i paesi consumatori e importatori l´ovvio corollario di un aumento dei prezzi di fonti d´energia, di materie prime, di prodotti agricoli è che essi devono trasferire una maggiore quantità di risorse ai paesi produttori ed esportatori: l´aumento di prezzo è l´equivalente di una tassa con cui questo trasferimento si attua. Nel caso dei mutui, la maggiorazione è la conseguenza di un aumento del costo di produzione dell´intermediazione dovuto a una percezione di maggior rischio. L´esperienza della prima crisi petrolifera (un quarto di secolo fa) ci ha insegnato che è vacuo cercare di rincorrere gli aumenti dei prezzi degli input importati, e non sostituibili nel breve-medio termine, con aumenti dei redditi nominali lordi: la conseguenza sarebbe solo, come fu nel 1973-74, l´innesco di una spirale di inflazione, con danno per tutti e beneficio per nessuno. L´esigenza di stimolare la crescita della produttività e di stabilire un più stretto collegamento con essa della dinamica dei redditi da lavoro è dunque corretta, perché assicura che i costi del lavoro per unità di prodotto non subiscano una spinta al rialzo. Ma non ci si può fermare qui, questa essendo solo una parte del problema di cui, un po´ confusamente, si dibatte in questi giorni: anche perché non solo di salari si tratta. La tassa imposta alla popolazione del paese importatore sotto forma di maggiori prezzi a vantaggio degli esportatori stranieri (si parlava un tempo di tassa per lo sceicco, solo che oggi gli sceicchi si sono moltiplicati) è profondamente iniqua, perché è fortemente regressiva. Come ogni imposta indiretta, essa, in proporzione, percuote più pesantemente i redditi più bassi e si riduce gradualmente all´aumentare del reddito: i più ricchi neppure si accorgono degli aumenti dei prezzi dei carburanti, delle tariffe di trasporto, delle bollette della luce e del gas, del costo dei mutui; ai più poveri quegli stessi aumenti infliggono pesanti decurtazioni del reddito disponibile, e dunque di altri consumi essenziali. Questo è tanto più vero in Italia, ove la disuguaglianza è più pronunciata e i salari sono più bassi e ove i redditi di lavoro, e in conseguenza i consumi, sono cresciuti assai poco negli ultimi anni. E´ dunque legittimo chiedersi se e come questa iniquità possa essere alleviata senza dar luogo a un aumento dei costi del lavoro. La risposta naturale è che a ciò dovrebbe provvedere lo Stato, intervenendo per aumentare il reddito netto a parità di reddito lordo con una riduzione permanente delle aliquote di imposizione diretta sui redditi più bassi (diciamo sino a 25mila euro). Un siffatto sgravio fiscale è indipendente dalla questione della produttività, il suo fine essendo prevalentemente quello di impedire che «le tasse degli sceicchi» colpiscano sproporzionatamente i redditi più bassi: la prevenzione di crescenti iniquità dipendenti da fattori esterni rientra fra gli obiettivi di ogni politica economica. Già, ma dove reperire le risorse per una riduzione che, per essere appena significativa, dovrebbe avvicinarsi a mezzo punto di prodotto? In America il problema neppure se lo porrebbero, ma in Europa abbiamo sul collo il fiato caldo del patto di stabilità. Una parte sostanziosa (2-3 miliardi) potrebbe provenire dall´unificazione al 20 per cento dell´aliquota d´imposta sulle cosiddette rendite finanziarie, che, da noi, è più bassa che in quasi ogni altro paese: esecrata dall´opposizione, che pure la propose quando era maggioranza, trova oggi ostacolo nella maggioranza, che pure la proponeva quando era opposizione. Non sarebbe certo una rivoluzione, soprattutto se il gettito fosse destinato a sgravi fiscali per chi non è in grado di risparmiare neppure un euro (o è costretto a indebitarsi per tirare avanti). Allo stesso scopo, e non ad altri, si dovrebbe destinare ogni sopravvenienza attiva del gettito rispetto alle previsioni, possibile nel nuovo regime di maggiore serietà tributaria che continua a dare i suoi frutti. Il conto potrebbe essere completato con la riduzione di qualche decimale della spesa pubblica corrente, anche se l´esperienza recente non conforta: la spesa per beni e servizi, ad esempio, potrebbe ridursi se si pagassero prezzi minori grazie a una centralizzazione degli acquisti delle amministrazioni (come ha già fatto qualche regione con notevole vantaggio). Decimale in più, decimale in meno, un sostegno fiscale permanente ai redditi più bassi dovrebbe comunque essere assunto come obiettivo primario della politica economica del Governo. Abbondano le spiegazioni politico-sociologiche di un crescente discontento. Servono, quelle spiegazioni, a giustificare una rassegnata impotenza o a motivare appelli retorici di opposto segno. Senza scomodare la sociologia, non si potrebbe provare a far stare meno peggio chi ha ragioni assai sostanziose per essere scontento?