Domenico Quirico, La Stampa 31/12/2007, 31 dicembre 2007
VARI ARTICOLI SULLE ELEZIONI IN KENIA
LA STAMPA 31/12/2007
DOMENICO QUIRICO
Samuel Kivuitu, presidente della Commissione elettorale, da tre giorni è il personaggio più controverso del Kenya: metà Paese, quello che esige il candidato dell’opposizione Odinga come presidente, lo accusa di essere il burattinaio dell’ennesima, colossale truffa elettorale. Quando ieri, a metà pomeriggio, è finalmente comparso in tv per annunciare, dopo vari rinvii, i risultati definitivi della più combattuta e pericolosa battaglia elettorale dai tempi dell’indipendenza, è stato con sollievo che ha scandito le cifre dei 210 seggi: il presidente uscente Mwai Kibaki 4 milioni 584 mila voti, lo sfidante Odinga 4 milioni 352 mila, appena 231.728 voti di differenza. Kibaki dunque strappa per un pugno di suffragi il secondo mandato e rispedisce nel mondo delle ipotesi la prospettiva di una sconfitta governativa, che nei Paesi africani, anche quelli a maggiore apparenza democratica, resta sempre un evento fantascientifico.
Appena un’ora dopo la proclamazione il vecchio-nuovo presidente prestava già giuramento, in una cerimonia allestita a tempo di record, concluso con un appello alla calma e alla unione nazionale. Una fretta che ha accresciuto i sospetti. Quasi una conferma per Odinga che aveva anticipato tutti, con una improvvisata conferenza stampa: «Abbiamo le prove che il presidente ha frodato, aggiungendosi almeno trecentomila voti. Noi siamo disposti a riconoscere la vittoria degli avversari, certo, ma solo quando è regolare. Il popolo keniota stavolta non ha nessuna intenzione di farsi prendere in giro». Prima di chiudere con un minaccioso e vago: «Non riconosciamo i risultati delle elezioni».
Lo hanno preso alla lettera i suoi sostenitori, che sono le classi più povere della popolazione e soprattutto l’etnia Luo che si considera vittima di un apartheid di potere e di ricchezza vecchio almeno quanto l’indipendenza che risale al 1964. A Kibera, la bidonville che assedia la Nairobi degli alberghi e dei grattacieli, feudo elettorale dello sconfitto, migliaia di giovani hanno afferrato machete, sassi e bastoni e hanno cominciato a bruciare baracche e a fare baruffa con la polizia. Saccheggi e scontri sono scoppiati in altre zone del Paese dominate dalla etnia Luo, dopo poche ore si contavano già tredici morti. La replica di quanto è successo sabato alle prime notizie che il presidente era passato, un po’ troppo improvvisamente, in testa dopo essere stato martirizzato da sondaggi e proiezioni.
Ci sono gli ingredienti, purtroppo, per trasformare un’elezione democratica nella miccia di una ennesima tragedia tribale. Perché sarà difficile convincere i Luo e le altre etnie minoritarie che non sono vittime dell’ennesima beffa del «regime» dei Kikuyu. Kibaki, 76 anni, economista apprezzato negli ambienti finanziari keniani e non, innumerevoli volte ministro, ha puntato sui buoni risultati economici degli ultimi anni.
«Fatemi continuare il lavoro» è stato il suo slogan. Ma rispetto al 2002, quando c’era da smantellare la putrida «dittatura» di Arap Moi, e l’oppositore storico Odinga, con le medaglie di nove anni di galera, era al suo fianco inneggiando all’unità nazionale, qualcosa non ha funzionato. La spiegazione è in una parola: corruzione. Il presidente che non ha lottato contro questa piaga perché porta i colori del suo partito ha promesso che costruire un Paese «pulito» sarà la sfida dei prossimi cinque anni. Molti non si fidano. Lo prova anche la sconfitta di molti esponenti prestigiosi del partito governativo nelle elezioni per il parlamento. Sono caduti dieci dei 32 ministri, e tra i bocciati ci sarebbe, secondo i primi dati, anche il premio Nobel Wangari Maathai, battuta nella sua circoscrizione di Tetu, sull’altopiano. Hanno pagato una serie di aumenti di indennità e di gettoni di presenza che si sono concessi prima delle elezioni e che li hanno inseriti tra i parlamentari più pagati del mondo.
CORRIERE DELLA SERA 31/12/2007
MASSIMO A. ALBERIZZI
DAL NOSTRO INVIATO
NAIROBI – Il Kenia, uno dei pochi Paesi africani a tradizione democratica senza colpi di Stato (uno solo nel 1982 è abortito sul nascere), è nel caos e sull’orlo del disastro. Nel pomeriggio di ieri il candidato dell’opposizione, Raila Odinga, davanti ai giornalisti, ha accusato il presidente uscente Mwai Kibaki di trucchi, brogli e irregolarità. Ha mostrato documenti e portato testimonianze. Poco dopo la commissione elettorale ha proclamato vincitore il capo dello Stato uscente Mwai Kibaki (4.215.437 voti contro 3.748.261). Kibaki sapeva già tutto perché immediatamente ha giurato nelle mani del capo della corte suprema. E’ bastato l’annuncio alla radio e sono scoppiati i primi disordini. La polizia antisommossa è intervenuta con i lacrimogeni e con i mitra. I morti, ieri fino a tarda sera, erano almeno dieci.
Mentre Odinga stava per cominciare una conferenza stampa il ministro per la sicurezza nazionale, John Michuki, ha ordinato alle radio e alle televisioni di bloccare tutte le trasmissioni in diretta. I microfoni sono stati così tagliati. E’ calato il silenzio anche su quanto sta accadendo nei quartieri più poveri della capitale dove kikuyu (l’etnia del presidente uscente) e luo (la tribù dello sfidante e dell’americano Barak Obama), già da sabato sera si sono pesantemente scontrati (dieci morti).
L’ordine di Michuki è stato l’ultimo (per ora) atto di un parapiglia elettorale che ha provocato un terremoto politico. I «giganti» della politica keniota (come li ha definiti il quotidiano Nation) sono stati spazzati via dal voto. Il vicepresidente Moody Awori e venti ministri non sono stati rieletti e pure i dinosauri che occupavano un posto di deputato dai giorni dell’indipendenza del Kenia hanno perso lo scranno. Fuori dal parlamento anche gli affaristi, uno tra tutti il potentissimo Nicolas Biwott, ministro più volte con l’inossidabile presidente Daniel arap Moi (al potere per 24 anni) e riciclatosi poi con Kibaki. Anche i tre figli di Moi, Gideon, Raymond e Philip (quest’ultimo sposato con un’italiana, Mara), non ce l’hanno fatta, nonostante la potenza (e i soldi) del padre.
I candidati del partito di Kibaki (Pnu, Party of National Union) e dei gruppi minori alleati hanno avuto una sconfitta clamorosa. E’ mai possibile che invece il presidente nelle stesse circoscrizioni abbia battuto il suo sfidante, sebbene per una manciata di voti? «Poco credibile – risponde l’ambasciatore tedesco Walter Lindner, presente per tutto il giorno nella sede della commissione elettorale assieme ai colleghi francese, austriaco, danese, olandese, britannico, spagnolo, belga, svizzero, canadese e americano per seguire momento per momento l’andamento dei risultati - . Queste elezioni sono piene di punti interrogativi. Le procedure del voto sono state corrette, gli scrutini no». Insomma, la popolazione keniota si è dimostrata più matura dei suoi leader. Gli fa eco un collega: «Abbiamo cercato per ore di persuadere il presidente della commissione a riconteggiare i voti. Non c’è stato verso».
Il capo degli osservatori della Ue e membro del parlamento europeo, Alexander Graf Lambsdorff, è ancora più duro: «La commissione – sostiene – ha fallito nel garantire la credibilità del processo elettorale. Ci sono state irregolarità che ci autorizzano a avere seri dubbi sull’accuratezza dei risultati annunciati oggi».
Mentre scende la notte, nelle baraccopoli attorno a Nairobi, ma anche a Mombasa, porto sull’Oceano Indiano, e a Kisumu, sul lago Vittoria, caposaldo dei luo, la situazione sta diventando sempre più calda: saccheggi e posti di blocco con auto bruciate. I telefoni funzionano male: «Qui a Kibera (una delle baraccopoli più grandi dell’Africa, oltre un milione di persone, ndr) sparano. Stanno bruciando le case. Hanno tentato di linciare alcune persone», comunica via sms uno stringer del
Corriere. Mentre padre Daniele Moschetti, missionario comboniano che vive tra i tuguri di Korogocho racconta che è cominciata la caccia al kikuyu: «Ieri notte hanno attaccato i luo con una decina di morti. Stanotte è cominciata la vendetta».