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 2007  dicembre 31 Lunedì calendario

Chi era Modiano nel 1968? «Uno studente sgobbone di 16 anni al Liceo Manzoni di Milano. All’inizio fu un movimento d’élite

Chi era Modiano nel 1968? «Uno studente sgobbone di 16 anni al Liceo Manzoni di Milano. All’inizio fu un movimento d’élite. Primi della classe. Non era il sei politico». Quale è stata la molla? «Le cronache del Maggio francese, gli studenti che si ribellavano alla polizia. Avevamo capito che anche noi potevamo prendere in mano il nostro destino scolastico. Un cortocircuito immediato tra una piccola classe di un liceo italiano, la Cina, Praga, l’America e il Vietnam. E’ stato, per alcuni mesi, un risveglio straordinario di coscienze individuali in formazione, eravamo così giovani, che si sono confrontate tutte insieme ognuna con la propria responsabilità e capacità di scegliere, la vita, la giustizia e l’ingiustizia». La prima contestazione? «Un po’ malvagiamente, alla professoressa di chimica». Il rapporto con i genitori? «Mio padre non era tollerante. Quando occupammo il Manzoni - tornai a casa a mezzanotte - mi punì. Noi ci sentivamo come Mazzini e i costituenti del 1848. Voleva mandarmi in collegio. Ma la mia vicenda era comune a tutti e lasciò perdere». A scuola eravate tutti uniti? «All’inizio c’era una straordinaria unità. Esploravamo nuove vie, era un divertimento e non c’era ancora la politica di mezzo». I nemici chi erano? «I fascisti erano pochi e stavano per conto loro. Poi c’erano i liberali, avevamo difficoltà a capirci. Dicevano cose noiose, col senno di poi anche giuste, che venivano travolte dal movimento. Molti finirono a sinistra dopo». Quando è cambiato tutto? «Con piazza Fontana, come ha scritto Sofri, in quel momento il movimento ha perso l’innocenza. E non fu colpa nostra». Quali erano i sentimenti? «A Milano ci fu grande paura. Avevano arrestato un nostro compagno anarchico del liceo. Qualche settimana prima era morto Annarumma, un agente che cadde in uno scontro con i dimostranti. E’ stato uno dei traumi della mia vita. La morte di una persona ci travolse. Ma il movimento non fece un vero dibattito sui rischi della violenza». Un fotogramma di quei giorni. «Mario Capanna che, da solo, va nella chiesa di San Carlo al funerale dell’agente. Fu una delle migliori cose del ”68». Il libro di riferimento? «La Lettera ad una professoressa di don Milani. Insegnava l’idea dell’ingiustizia, che l’accesso alle opportunità era precluso dall’origine sociale. Non era egualitarismo, era diritto all’eccellenza. Il sei politico fu una degenerazione». La libertà sessuale? «Non me ne sono accorto. Noi, ragazzi e ragazze, eravamo dei parrucconi, studiavamo molto. Mi ricordo tanto ciclostile». Mai tirato un sanpietrino? «No, non sono uno coraggioso fisicamente. Non scappavo, però non ero capace di atti di violenza. Fui preso per i capelli da un poliziotto e basta». Poliziotti e giovani contestatori, aveva ragione Pasolini? «Annarumma fu una svolta. Il senso del rimorso di venire da una classe privilegiata non mi ha mai lasciato. la mia formazione cattolica». I rapporti con sindacati? «Io sono sempre alla destra della sinistra. Ho sempre pensato che il rapporto con il sindacato fosse vitale». Avete sofferto? «L’altro trauma fu la morte Roberto Franceschi, il 23 gennaio ”73, durante gli scontri tra polizia e studenti di fronte alla Bocconi. Io non c’ero, lui morì. Eravamo amici. Ho contribuito a organizzare i funerali e sono andato militare, a Orvieto. Sono scappato per andare a pensare. Ricordo marce in divisa. Primavera del ’73, la via d’uscita da anni cupi, non formidabili». Cosa si deve cancellare del ”68? «Violenza e autoritarismo antiautoritario». Cosa conservare? «Lo spirito di indipendenza. Ribellarsi è giusto, possibile, democratico». Mario Capanna? «Ci siamo incontrati qualche mese fa. Un uomo importante e positivo, coraggioso anche nelle scelte individuali. Coerente». Adriano Sofri? «Non l’ho mai conosciuto, ha certo una grande intelligenza». E la sua vicenda giudiziaria? «Non so. Il giudizio di fronte alla morte, anche quella individuale, va sospeso. I morti hanno segnato la mia generazione, ma non credo che ci sia una lingua di sangue comune tra il ”68 e il terrorismo. E infatti quella è la stessa generazione che, nel 2008, si batte contro la pena di morte. Ne siamo usciti con un rispetto per la vita straordinario». Allora era contro il capitale, ora è banchiere. «Fa parte delle storie individuali. Non ho scelto di fare il banchiere. Sono stato anni nei centri studi. Lo sono diventato per spostamenti progressivi. Di responsabilità in responsabilità si tende a non rifiutare». Cosa si porta dietro del ”68? «Tantissimo. Ho soprattutto il senso dei miei privilegi. So che nessun privilegio è mai meritato: ogni giorno bisogna cercare di fare il proprio mestiere». E’ possibile uno nuovo ”68? «No, nessuno ha mai capito che cosa successe nel mondo in quegli anni. Non si è poi nemmeno capito quali siano stati i risultati del ”68. Più coscienza dei diritti, questo sì, e uno scarto nella vita di milioni di giovani di allora, che resta. Ma nella società italiana di oggi, poche tracce, in positivo e negativo». C’è bisogno di un nuovo ”68? «C’è bisogno di un risveglio delle coscienze e del senso di responsabilità individuali. In Italia manca drammaticamente. Ma questo ha a che fare con l’oscurarsi della cultura illuministica».