Giulia Zonca, La Stampa 31/12/2007, 31 dicembre 2007
Sei famiglie contro i bulldozer, come il ragazzo contro il carrarmato in piazza Tienanmen e stavolta la resistenza non vale neanche la foto dell’anno, eppure di immagini ce ne sono tante
Sei famiglie contro i bulldozer, come il ragazzo contro il carrarmato in piazza Tienanmen e stavolta la resistenza non vale neanche la foto dell’anno, eppure di immagini ce ne sono tante. Facce stravolte tra le macerie, sono gli ultimi sfollati delle Olimpiadi, i diseredati del quartiere dietro lo stadio, il «Bird Nest», ultima struttura da consegnare per rispettare una tabella record che a 8 mesi dai Giochi dice: 36 strutture pronte su 37. Pechino macina mattoni e problemi, aggredita dallo smog che la imbarazza davanti al mondo e costringe gli atleti britannici a inventarsi una dieta contro l’anidride carbonica, fa conti spiccioli sul numero di persone rimaste senza casa: 15 mila al mese secondo le organizzazioni umanitarie, trentamila in totale secondo le autorità e ormai è quasi tutto finito. In ottobre la fase massiccia, hanno spopolato anche il quartiere finanziario che sta lontano da ogni impianto sportivo, serviva spazio per le tv, reti cinesi arrivate a pagare milioni per i diritti e ora sistemate in nuovi quartieri generali. Restano due isolati da buttare giù «per questioni di sicurezza», ufficialmente per lasciar defluire la massa dallo stadio e quel gruppo di edifici doveva già essere polvere. Solo che gli ultimi residenti hanno deciso di accamparsi lì. Sono pochi, non possono evitare alle ruspe di lavorare, però ostacolano, si mettono in mezzo, scrivono lettere, scorrazzano con i carrelli della spesa pieni delle loro proprietà, presidiano le abitazioni mentre intorno i muri crollano. Non hanno speranze e ne sono consapevoli, molti sono anziani che almeno vogliono restare a casa fino alla fine, altri attivisti arrivati a dare una mano, come Li Jinping, arrestato la mattina del 28 dicembre. stato un giorno in galera, fermato alle 8,40 del mattino e rilasciato dopo le 10 di sera con l’ennesimo avviso tra le mani: «i residenti del quartiere hanno tre giorni per andarsene», non è la prima volta che Jinping frequenta la polizia, è considerato un dissidente perché i suoi genitori conservano ritratti dell’ex leader Zhao Ziyang. Sta sulla lista nera e non fa nulla per uscirne, oggi appoggia chi si aggrappa alle porte per non perdere domicilio e identità. Minacciano di sfollare anche lui se non la smette di intromettersi e Jinping risponde sul sito che monitora le operazioni umanitarie cinesi (www.hrichina.org): «Se succede, sono pronto a darmi fuoco in piazza Tienanmen». I dissidenti accampati non sono tanto oltranzisti, stanno lì perché almeno i pochi reporter presenti possano raccontare quel che succede. «Ci spiegano che lo sgombero fa parte di un’operazione studiata, che dobbiamo collaborare e se lo facciamo avremo subito un’altra sistemazione, ma con i soldi del risarcimento ci si può comprare al massimo una cuccia per cani. Noi restiamo per strada», Zhang Yaoyao è uno di quelli che fa avanti e indietro con carretti carichi di coperte e mobilia, ogni giorno sposta il necessario in un luogo che ritiene sicuro almeno per 24 ore e poi torna a presidiare i metri davanti a casa. O quel che resta. Sun Ruoyu e sua sorella sono rimaste con la scavatrice parcheggiata nel retro per mesi. Un lenzuolo con su scritto «è illegale» appeso alla finestra e codici giuridici impilati nel soggiorno con il parquet rialzato a forza di scossoni. Hanno trasferito quanto avevano di prezioso, guardato il resto andare in frantumi e aspettano il minuto in cui non ci sarà più nulla da fare. O un miracolo. Possiedono uno dei negozi più antichi del centro, ce l’hanno da generazioni e conservano memorie scritte a mano, testimonianze del passaggio dell’imperatore Qing, ai tempi in cui, a quell’indirizzo, si vendeva il pane, poi cibo raffinato e altro ancora. Nell’ultima vita era un ristorante, adesso è un simbolo che barcolla. Lo sorelle hanno decine di telegrammi che chiedono loro di spostarsi, «Sostenete i Giochi», li conservano anche se sono tutti uguali. «Stavamo per andarcene, prima ci hanno detto che eravamo sulla strada della maratona, poi il percorso è stato reso pubblico e ci hanno dato altre ragioni. Abbiamo visto aumentare le proteste e deciso di restare: non vogliamo soldi, vogliamo giustizia. Oggi mi chiedo se davvero questa terra serva alle Olimpiadi o alla Cina». Sun Ruoyu ha 55 anni, da due la sua occupazione è proteggere il posto dove è nata, sua sorella Ruonan, di un anno più vecchia, si è arrampicata su una ruspa. L’ha fermata, «le squadre di lavoro sono fatte da gente normale, non cercano lo scontro, finché ci sono strutture demolibili si spostano». Ora il confine delle macerie è ristretto, un solo quartiere che raggruppa la resistenza, alimentata da rapporti sempre più dettagliati: «Sappiamo dove sono finiti gli sfollati della prima ondata, quelli che hanno creduto in una nuova sistemazione, 503 mila sono a est di Burma in una vasta zona dove c’è persino la giungla. Nessuno di loro ha una casa decente e 99 mila hanno ottenuto una stanza a testa con il solito telegramma: «In attesa di meglio. Sostenete i Giochi». Le regole dello sfollamento non prevedono violenza, i bulldozer non abbattono, aggirano e il capo della squadra costruzioni ricorda che tutti gli operai sono stati istruiti a seguire quattro comandamenti: demolire rispettando le leggi, demolire in modo civile, demolire amichevolmente, essere trasparenti con i vecchi residenti. Sun Ruoyu è ormai il capo ombra di un piccolo movimento senza speranza, non si sa nemmeno più se i custodi delle strade stiano veramente davanti ai posti dove abitavano o se facciano la guardia, ogni giorno, a quello che resta in piedi. Se vivessero lì o come gli attivisti, che fanno dentro e fuori dalle prigioni, siano arrivati a difendere una causa. A differenza del ragazzo di piazza Tienanmen, hanno nomi e cognomi e li spediscono in giro il mondo. Quello delle sorelle Ruoyu è arrivato fino in Australia. «Molte associazioni ci hanno chiesto cosa potevano fare per noi. Rispondiamo sempre: fatevi sentire». E aspettano, dentro un vecchio ristorante che ha visto la storia passare e adesso cerca di farla. Stampa Articolo