Corriere della Sera, Sergio Romano 28/12/2007, 28 dicembre 2007
I suoi confini sono incerti. I suoi vicini sono potenziali avversari. La sua società è composta in buona parte da tribù, fiere della propria autonomia e insofferenti del potere centrale
I suoi confini sono incerti. I suoi vicini sono potenziali avversari. La sua società è composta in buona parte da tribù, fiere della propria autonomia e insofferenti del potere centrale. La sua religione, l’Islam, è fattore di divisione, piuttosto che di unità. Il suo nome non appartiene agli atlanti storici: è soltanto un acronimo composto dalle prime lettere dei maggiori gruppi etnici che concorsero alla sua fondazione. La sua lingua ufficiale è l’urdu, ma la sua classe dirigente e i suoi intellettuali parlano inglese con l’inconfondibile cantilena del subcontinente indiano. Il suo sport nazionale è il cricket, un vecchio gioco dei colonizzatori in cui gli indigeni hanno rapidamente superato i maestri ma le sue feste religiose sono celebrate con la scrupolosa ortodossia del profondo Islam. Le sue forze armate usano ancora i manuali di addestramento dell’esercito britannico, ma i guerrieri delle tribù conoscono perfettamente l’arte dell’agguato, dell’imboscata, dell’attentato. Le sue accademie militari e i suoi collegi sono ispirati a modelli britannici, ma le sue diecimila scuole coraniche, finanziate dall’Arabia Saudita, hanno prodotto un ceto di clerici militanti per cui la Sharia è più importante delle leggi dello Stato. I giudici in parrucca bianca, gli avvocati in abito scuro e i barbuti imam della Moschea Rossa sono cittadini dello stesso Paese, ma appartengono a mondi diversi. Questo Stato contraddittorio nasce tumultuosamente nel momento in cui la Gran Bretagna decide di mettere fine al suo secolare dominio sull’India. Gandhi vorrebbe l’unità dei popoli che abitano il subcontinente, ma anche i musulmani hanno un leader, Mohammed Ali Ginnah, che vuole e conquista l’indipendenza. Nessuno, tuttavia, può dire con esattezza dove siano i confini che dovrebbero separare le popolazioni dell’India da quelle del Pakistan. L’atto di nascita dei due Stati è quindi una guerra per le frontiere durante la quale milioni di indù e di musulmani s’incrociano sulle strade dell’esodo. In alcuni casi la sorte di un territorio è decisa dalle armi, in altri da discutibili scelte politiche. il caso del Kashmir dove il maharaja indù di una popolazione prevalentemente islamica sceglie di stare con l’India piuttosto che con il Pakistan. Quando i combattenti, depongono le armi, lo Stato dei musulmani è una creazione geopoliticamente assurda. Si compone di due parti (il Pakistan d’oggi e il Bengala orientale), separate da 1.500 km di territorio indiano. Tutte le sue regioni di frontiera (il Punjab, il Belucistan, il Kashmir e la grande regione dei Pashtun ai confini con l’Afghanistan) sono questioni aperte, laboratori di crisi future. La crisi più insidiosa è quella del Bengala orientale (il Bangladesh) che proclama la sua secessione nel 1971 e conquista l’indipendenza con l’aiuto dell’esercito indiano. Non è sorprendente che la politica di questo Paese rispecchi le sue anomalie e contraddizioni. Il successore di Ginnah, Ali Khan, viene assassinato nell’ottobre del 1951. Entra in gioco da quel momento l’esercito con la filosofia e i metodi che sono propri delle forze armate nei Paesi in cui la democrazia ha radici recenti e fragili. Il primo generale si chiama Ghulam Mohammed ed è ricordato negli annali dello Stato per lo scioglimento della prima Assemblea costituente nel 1954. Il secondo si chiama Iskandar Mirza, ricordato per il pugno di ferro con cui aveva cercato di governare il Bengala orientale. Il terzo è Mohammed Ayub Khan, ricordato per la rapidità con cui sostituì Mirza. Il quarto è Yahia Khan che sostituisce il suo quasi omonimo nel 1969. Cominciarono a intravedersi allora i segni di un ritorno alla democrazia e apparve sulla scena del Paese Zulfikar Ali Bhutto, padre di Benazir e leader del Ppp, Partito del Popolo Pakistano. Il distacco del Bangladesh umiliò il Paese, ma ebbe l’effetto d’indebolire la sua casta militare. Divenuto primo ministro, Bhutto avviò una politica di sviluppo e modernizzazione che dette qualche buon risultato. Ma è lui che nel 1974, dopo il primo esperimento nucleare indiano, dette ordine agli scienziati pakistani di mettersi al lavoro. Nemmeno Bhutto, tuttavia, poté impedire nuove tensioni etniche, una nuova crisi istituzionale e l’arrivo di un quinto generale, Zia ul-Haq. Fu sciolto il parlamento e Bhutto venne arrestato, processato, condannato a morte. Là dove la politica è debole e non riesce ad affermare i suoi principi, le forze armate sono inevitabilmente forti. Nel 1985 questo turbolento Paese, condannato a una perenne instabilità politica, divenne la terza potenza nucleare dell’Asia. Anche in Pakistan, tuttavia, come nell’India di Indira e Sonia Gandhi, le donne hanno il temperamento, la tenacia, il carisma dei padri e dei mariti. Rientrata dall’esilio, Benazir Bhutto appare sulla scena politica pakistana nel 1986, conduce il partito del padre a una prima affermazione elettorale nel 1988 e diventa premier alla fine dell’anno. Cacciata dal presidente, perde il potere nel 1990, ma lo riconquista nel 1993 e lo conserva fino al 1996. Cacciata nuovamente e accusata di corruzione, parte per il suo secondo esilio. Ma ecco che negli ultimi mesi riappare nuovamente sulla scena, leggermente appesantita dagli anni, ma ancora bella e, soprattutto, straordinariamente intrepida. Il micidiale attentato del giorno in cui tornò in patria, il duello politico con il generale Musharraf (uno scontro dietro il quale s’intravedeva la possibilità di un accordo) e la sua impavida campagna elettorale sono avvenimenti delle scorse settimane. difficile immaginare che la storia del Pakistan nei prossimi anni possa essere migliore. Ma non sarebbe giusto dimenticare che questo sfortunato Paese ha cercato di costruire la propria identità politica mentre la sua stessa esistenza era minacciata dall’impressionante sequenza di conflitti in cui è stato direttamente o indirettamente coinvolto: le guerre con l’India per il possesso del Kashmir, la secessione del Bengala orientale e la lunga guerra dell’Afghanistan dall’occupazione sovietica al regime talebano del mullah Omar, dall’occupazione americana al ritorno dei talebani. vero che in tutti questi anni il Pakistan ha potuto contare sull’amicizia degli Stati Uniti. Ma questa amicizia è divenuta malauguratamente, negli ultimi anni, un’altra causa della sua instabilità. Sergio Romano