Corriere della Sera, Davide Frattini 28/12/2007, 28 dicembre 2007
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
GERUSALEMME – Gli schermi piatti occupano lo spazio delle tre piccole stanze. I quindici emissari lavorano gomito a gomito, mentre le dita corrono sulla tastiera. Emissari che non si muovono da Gerusalemme. Il loro compito è viaggiare su Internet in tutto il mondo e convincere – con una chiacchierata online – gli ebrei che vivono all’estero a immigrare in Israele.
la nuova tattica dell’Agenzia ebraica per cercare di contrastare il calo nel numero di persone che scelgono di compiere
aliyah. Mai così poche, negli ultimi vent’anni: nel 2007 sono arrivati 19.700 nuovi cittadini, 6 per cento in meno rispetto all’anno scorso, con un crollo tra gli abitanti dell’ex Unione Sovietica, che rappresentano il 30 per cento del totale e sono scesi del 15 per cento. «Gli ebrei della Diaspora – commenta Zeev Bielsky, presidente dell’organizzazione – hanno meno ragioni per lasciare i Paesi d’origine. In Russia la situazione economica è migliorata e le comunità ebraiche stanno rifiorendo ». I numeri si sono ridotti anche dalla Francia. «L’elezione di Nicolas Sarkozy alla presidenza – continua Bielsky – ha ridato un senso di sicurezza ».
La grande ondata di immigrazione è durata dieci anni ed è finita nel 2002. Dopo la caduta del Muro di Berlino, oltre un milione di ebrei ha lasciato l’ex Unione Sovietica. Un afflusso considerato strategico dai governi israeliani nella sfida demografica con i palestinesi. Un afflusso considerato poco kosher dal rabbinato che ha giudicato il 50 per cento dei «russi» non ebreo secondo le norme religiose.
L’Agenzia cerca sovvenzioni e sostegni ed è stata criticata per aver pubblicizzato l’ultima operazione. Quaranta ebrei sono stati fatti uscire dall’Iran e martedì sono atterrati all’aeroporto Ben Gurion, dopo la tappa in una località segreta. La comunità ebraica iraniana – scrive il Jerusalem Post – teme che il viaggio possa compromettere i suoi rapporti con il regime, proprio quando il presidente Mahmoud Ahmadinejad ripete che gli «ebrei dovrebbero essere mandati in Canada o Alaska».
Per contrastare il calo, il governo di Ehud Olmert ha mandato in missione anche gli agenti segreti dell’organizzazione Nativ, spediti in Germania per convincere gli ebrei dell’ex Urss a partire. «Bisogna contrastare il pericolo dell’assimilazione », spiega il documento votato dal consiglio dei ministri. I giornali tedeschi hanno parlato di «James Bond dell’immigrazione» e Frank Walter-Steinmeier, ministro degli Esteri tedesco, ha commentato: «Scegliere dove andare a vivere deve restare una decisione personale, senza pressioni». I rabbini locali si sono infuriati per il tentativo di «rubare i fedeli».
Davide Frattini
GERUSALEMME – «Anch’io mi sento un ebreo della Diaspora. In Israele». Lo scrittore Etgar Keret ripete la battuta che caratterizza tanti suoi personaggi, «sempre dislocati, fuori luogo e fuori dal coro». A Tel Aviv ci è nato, non lascerebbe mai il Paese («questa intensità, non si può stare senza»), ma considera la decisione di immigrare «troppo personale perché un’organizzazione possa cercare di influenzare la scelta».
Fa notare il paradosso tra il record negativo di chi ha fatto aliyah
e uno degli anni migliori per l’economia israeliana. «Il 2007 è stato anche il periodo in cui il numero più basso di persone è rimasto vittima di un attentato. Lo shekel è più forte e stabile del dollaro, la Borsa continua a correre, eppure gli ebrei hanno preferito restare nei Paesi d’origine». Spiega che l’immigrazione «ideologica» non esiste quasi più ed è contento: «Mi sembra un segno di normalità per questa nazione». «Adesso chi sceglie dove andare a vivere prende microdecisioni pragmatiche. Troverò un buon lavoro? Come sono le scuole per i miei figli? C’è inquinamento? un posto sicuro?».
convinto che il legame con la Diaspora non si sia ridotto. «Anzi, gli ebrei francesi hanno comprato tutti gli appartamenti disponibili in città. Sono loro che hanno creato e sostenuto il boom edilizio. per questo che a Tel Aviv uno studente non riesce a trovare nemmeno una stanza. Considerano Israele un Paese da venire a visitare, dove coltivare le radici, senza bisogno di passarci tutto l’anno».
Non crede che le minacce di Mahmoud Ahmadinejad, presidente iraniano, abbiano influito sul calo. «Ripeto: ormai sono decisioni meno geopolitiche e molto più private. Non siamo negli anni Sessanta e Settanta, quando l’immigrazione era una questione esistenziale per lo Stato. Incoraggiare la gente a venire qui invece che andare in Italia mi sembra futile e poco efficace come le campagne per spingere le nuove coppie ad avere bambini. Non credo che pubblicizzare le virtù di Israele possa servire». Forse – suggerisce – andrebbe ridotto il tono delle urla attorno ai problemi. «Purtroppo questa nazione si definisce sempre durante le crisi. Lo sciopero degli insegnanti ha fatto credere che l’educazione faccia schifo. Non è così. Continuiamo a produrre accademici brillanti e cultura. I maestri erano pagati poco anche quando andavo io a scuola. E mi sono laureato lo stesso».
Etgar Keret, 40 anni, scrittore israeliano, è anche regista
D. F.