Sergio Romano, Corriere della Sera 28/12/2007, 28 dicembre 2007
Sono appassionato di storia e le sarei grato se mi parlasse del famoso Discorso del Bagnasciuga, su cui tra l’altro (se non erro) si discusse da parte di molti tecnici se la parola «bagnasciuga» fosse giusta nell’utilizzazione fatta da Mussolini
Sono appassionato di storia e le sarei grato se mi parlasse del famoso Discorso del Bagnasciuga, su cui tra l’altro (se non erro) si discusse da parte di molti tecnici se la parola «bagnasciuga» fosse giusta nell’utilizzazione fatta da Mussolini. Alessandro Dell’Oro alessandrodelloro@ tiscali.it Caro Dell’Oro, I l discorso fu pronunciato al Direttorio del Partito nazionale fascista il 24 giugno 1943, ma venne comunicato alla stampa e all’Eiar (come si chiamava allora la Rai) soltanto il 5 luglio, quattro giorni prima dello sbarco alleato in Sicilia. Mussolini disse tra l’altro: «Bisogna che non appena questa gente tenterà di sbarcare, sia congelata su questa linea che i marinai chiamano del bagnasciuga ». Ricordo che molti italiani si interrogarono sull’uso della parola e si affrettarono a consultare i dizionari dove bagnasciuga significa solo raramente battigia (secondo il Vocabolario della Treccani: «Linea lungo cui l’onda marina batte sopra la spiaggia»), ma, più precisamente, «la zona della superficie dello scafo di una nave compresa tra la linea d’immersione massima e minima, quindi alternativamente bagnata e asciutta a seconda del carico». Molto più grave dell’imprecisione tuttavia fu il tono di spavalda sicurezza con cui Mussolini credette di potere esortare le forze italiane alla resistenza contro gli Alleati. Il discorso appartiene a uno dei momenti più agitati e confusi della storia nazionale. Se vuole rendersi conto del modo in cui gli italiani vissero quei mesi, caro Dell’Oro, legga qualche pagina del lungo capitolo su «L’Italia in guerra, 1940-1943» che Renzo De Felice ha scritto per «Mussolini l’alleato», quarto e penultimo volume della sua incompiuta biografia del capo del fascismo. Scoprirà che l’Italia, tra la fine del 1942 e il 25 luglio del 1943, fu tutta un brusio di speculazioni, chiacchiere, progetti avventati e abortiti. Non vi fu uomo politico del regime o alto esponente delle forze armate che non si interrogasse sul modo migliore per tirar fuori il Paese dalla tragica situazione in cui stava rapidamente precipitando. Il Papa faceva sapere di essere disposto a una mediazione. Giuseppe Bastianini (sottosegretario agli Esteri, ma di fatto ministro) cercava di mobilitare a fianco dell’Italia i Paesi dell’area danubiano-balcanica e lanciava segnali agli Alleati. Il capo di stato maggiore gettava la colpa degli eventi sulle spalle dei tedeschi. Dino Grandi invocava l’intervento del re. E Vittorio Emanuele III ascoltava come una sfinge i molti notabili che entravano nel suo studio per esporgli le loro paure e cogliere sul suo volto un segno delle sue intenzioni. Mussolini, dal canto suo, immaginava un’ultima disperata via d’uscita. Sperava di convincere Hitler a chiudere con un compromesso la guerra sul fronte russo per concentrare ogni sforzo dell’Asse nel Mediterraneo. Esiste tuttavia un aspetto della vicenda che giustifica in parte il discorso di Mussolini e che ci appare oggi particolarmente paradossale. Molti credevano o speravano che lo sbarco degli Alleati in Sicilia o in Sardegna sarebbe stato accolto da una forte resistenza. Ne era convinto il filosofo Giovanni Gentile quando pronunciò il suo discorso agli italiani in Campidoglio il 24 giugno 1943. Ne era convinto il capo di stato maggiore generale Vittorio Ambrosio quando scrisse in un appunto per Mussolini che l’Italia non avrebbe ceduto, se non temporaneamente, una parte del territorio nazionale. Ne era convinto Vittorio Emanuele quando disse a Dino Grandi: «Le nostre truppe resisteranno, combatteranno». E ho l’impressione, sulla base dei miei ricordi, che questa prospettiva apparisse probabile a molti italiani. Le cose andarono diversamente. La resistenza durò soltanto qualche giorno e crollò, di fatto, quando gli Alleati, dopo essersi impadroniti di Augusta, avanzarono rapidamente sino a Palermo dove furono accolti da manifestazioni di giubilo. Quella notizia non fu pubblicata dai giornali, ma passò da un orecchio all’altro e fu ragione di sgomento per molti italiani, non necessariamente fascisti.