Mimmo Candito, La Stampa 28/12/2007, 28 dicembre 2007
Le avevano mandato un messaggio chiaro già al momento del suo ritorno in patria, il mese scorso. «Ti uccideremo»
Le avevano mandato un messaggio chiaro già al momento del suo ritorno in patria, il mese scorso. «Ti uccideremo». Quel giorno, la bomba l’aveva mancata di poco. Lei aveva risposto con un tono di sfida, come sempre: «Mi vogliono fermare, ma non ci riusciranno». Questa volta però la bomba non l’ha mancata, e ora lei l’hanno fermata. Per sempre. E’ stata una via intensa, questa di Benazir Bhutto, sempre dietro qualcosa, un progetto, un desiderio, un’ambizione. Ecco, l’ambizione: di essere sempre la prima, di riuscire a fare quello che nessun altro (nessun’altra) ha fatto, del potere e del dominio sulle stesse asperità della vita. All’inizio era stato facile, figlia prediletta di una delle più potenti famiglie del Sind, tutti gli agi della ricchezza più ampia, il rispetto che sempre nei Paesi poveri si guadagnano naturalmente coloro che dominano gli uomini e le cose. Riverita, lodata, invidiata, ammirata anche per la sua bellezza altera. Una bellezza che perfino «People» aveva voluto segnalare al suo pubblico immenso di casalinghe curiose, classificandola tra le 50 donne più belle del mondo, ma anche una bellezza che nessun costume repressivo della cultura islamica aveva mai potuto umiliare. Portava il velo sui capelli, un foulard lieve che simbolicamente riconosceva le imposizioni della più severa tradizione coranica, e indossava lo shawal khemize del suo popolo, camicione ampio sui pantaloni larghi e flosci; ma quel velo e quel camicione venivano portati come un modello esclusivo d’alta moda, perdendo nell’orgoglioso atteggiamento che lei sempre teneva ogni valore formale, di riconoscimento d’una identità religiosa o nazionale. Perché Benazir Bhutto è stata questo, una individualità che mai si è piegata (o comunque che mai ha voluto piegarsi) alle ragioni del mondo che le stava d’attorno. Solo in un’occasione aveva dovuto abbassare il capo, ritraendosi da quella sua indomita alterigia, la fronte altrimenti sempre ben alta, lo sguardo forte e diritto, rigida e tesa come mai nessuna donna musulmana; quando il gen. Zia ul-Haq aveva fatto arrestare suo padre, il primo ministro Ali Bhutto, e lo aveva condannato a morte. Lei, la figlia più bella, la donna più ammirata e temuta, aveva chiesto di poterlo andare a salutare nella sua prigione, un ultimo abbraccio prima della forca. Mai quel giorno, quel dolore, le si erano staccati di dosso. Da ragazza, l’avevano mandata a studiare in America, prima, dove aveva preso con il massimo dei voti la laurea in scienze politiche ad Harvard, e poi a Oxford, in Inghilterra, dove si era di nuovo laureata con lode, in scienze diplomatiche. Era il percorso d’una vita proiettata verso altri progetti, l’alta società, le relazioni importanti, la vita dolce; il suo destino non sarebbe stato quello di oggi, se non le avessero impiccato il padre. Ma quell’assassinio (perché tale lei sempre lo ha giudicato) le indicò una nuova strada, e le sue ambizioni sociali e mondane divennero, da quel giorno, una cosa soltanto: la politica. Tornò in patria, fondò un partito, stravinse le elezioni. Fu nominata primo ministro, lei, una donna capo di un governo di tutti uomini. Non era mai accaduto nell’orizzonte antico delle società islamiche, in quel limbo amaro dove l’identità femminile deve piegarsi alle leggi mistiche dell’egemonia maschile, e subirne senza reazione possibile ogni dettato, ogni scelta, ogni volontà. Ma non lei, naturalmente, che nulla la piegava e il giorno stesso che ebbe l’investitura ufficiale disse con un fondo d’amarezza: «Volevo diventare quello che mio padre è stato, e ci sono riuscita. Io ottengo sempre quello che voglio. Ma so che per questo mi ammazzeranno». Quello che venne dopo non fu sempre una bella storia, perché la sua vita politica si intrecciò con una serie lunga e travagliata di accuse di corruzione, tanto da farla finire in galera e da tenerla sotto processo per un carico di più di 90 imputazioni. «Sono tutte falsità dei miei avversari», si difendeva lei, e comunque - quali che siano state le sue reali responsabilità - si era trovata ad agire in un territorio politico e giuridico dove il rispetto della legalità e la logica della divisione dei poteri erano una dichiarazione formale di principi più che una pratica della consuetudine sociale. Il marito, che con lei divideva larga parte di queste accuse, con sospetti di pesanti tangenti incassate per ogni opera pubblica, si è però dovuto fare 8 anni di galera in Svizzera, riconosciuto colpevole dai tribunali elvetici. «E’ tutta una montatura giuridica», continuava a ripetere lei dal suo esilio di Dubai. Espulsa due volte dal suo Paese, due volte Benazir Bhutto era tornata a riprendersi il potere che un largo consenso popolare sempre le ha restituito. E anche ora, ch’era stata a lungo in esilio, si preparava alla vittoria nelle elezioni del mese prossimo, forte non soltanto del sostegno che il suo partito e i suoi elettori le assicuravano ma anche, e soprattutto, del suo nuovo status, di «uomo degli americani». Bush, che l’ultima volta l’ha incontrata alcuni mesi fa alla Casa Bianca, aveva fatto della Bhutto la pedina essenziale della sua strategia di stabilizzazione del Pakistan, e Condoleezza Rice stava ormai alle spalle di ogni atto politico, di ogni decisione, che la Bhutto proiettava nel disastrato quadro degli equilibri istituzionali del suo Paese. La sua morte rallegra ed esalta le file del fondamentalismo che vuole allungare le mani sulla Bomba Musulmana: «L’America è una tigre di carta», dicono i miliziani del terrorismo islamico ballando sulla tomba della signora di Karachi. 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