F.Cav., Corriere della Sera 30/12/2007, 30 dicembre 2007
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
PECHINO - La Cina avrà la sua isola felice di democrazia. E’ un processo lungo e in due tappe, il 2017 e il 2020. Che, però, a Hong Kong venga definitivamente riconosciuto il diritto di scegliersi con il suffragio universale il suo Governatore e il suo parlamento, il Consiglio Legislativo, è una tappa importante e significativa per la storia della Repubblica Popolare.
Anche se i più accesi sostenitori del voto diretto chiedevano di anticipare i tempi al 2012 e avevano organizzato manifestazioni di protesta per sollecitare una decisione in questa direzione si può sostenere che questa svolta dà una certezza dopo tante pesanti polemiche e non era per niente scontata. Almeno nei contenuti.
La Cina esplicita, in modo chiaro con un documento ufficiale, che esiste la via della legittimazione popolare attraverso il consenso ottenuto nelle urne. E’ un fatto molto positivo.
Le parole contenute nell’atto col quale si annuncia che l’ex colonia inglese non sarà travolta da ripensamenti autoritari imposti dall’alto e che il principio «Un Paese Due sistemi » adottato nel 1997 al momento della restituzione di Hong Kong alla «madrepatria » equivalgono a un impegno preciso: «L’elezione del quinto governatore potrà essere realizzata nel 2017 con il suffragio universale; dopo che il Governatore sarà stato selezionato attraverso il suffragio universale, la elezione del Consiglio legislativo avverrà con il suffragio universale ».
Per tre volte in cinque righe ricorrono le due parole magiche: suffragio universale. Un record. Naturalmente Pechino, fino a che ha potuto, ha tentato di evitare una scelta così vincolante. Dapprima ha infatti usato la tecnica della indifferenza, poi è passata alla tattica del rinvio, infine si è dovuta pronunciare e ha optato per la data più lontana. Dovranno trascorrere nove anni, non è poco, neppure una eternità. Nei piani alti del regime è prevalso il realismo: a fronte di una spinta forte proveniente dallo schieramento favorevole alla elezione diretta nella ex colonia inglese il comitato permanente dell’Assemblea Nazionale non ha avuto altra alternativa che non fosse quella di dare il suo via libera.
Pare che sia stata una risoluzione sofferta ma se non fosse arrivata il significato del silenzio avrebbe avuto il sapore di una provocazione grave e di una sfida. La ragione è che il 12 dicembre scorso il governatore di Hong Kong, Tsang Yam-kuen, uomo gradito alla capitale e al partito comunista ma di solidi studi ed esperienze professionali negli Stati Uniti e in Inghilterra, aveva sottoposto all’organo legislativo cinese un documento con il quale si chiedeva una interpretazione ultima e definitiva sugli articoli della Basic Law, la Costituzione, che disciplinano proprio la scelta e la nomina del capo dell’esecutivo e del parlamento di Hong Kong. Spettava a Pechino valutare le procedure e con esse la direzione da prendere. Aldilà dei formalismi una scelta pesante e un messaggio chiaro da trasmettere: la Cina crede fermamente che sotto la sua sovranità piena possano convivere «due sistemi» e crede che stiano maturando le condizioni per trasformare i principi della sua politica in un esperimento vero, in qualcosa di visibile e di «esportabile». Soprattutto a Taiwan.
Il risultato è un compromesso che ha il difetto di rendere l’appuntamento di Hong Kong con la democrazia non immediatamente realizzabile (le proteste non mancheranno) ma ha il pregio di mettere un paletto, anzi qualcosa di più consistente, nell’ordinamento complessivo cinese. Pechino ha deciso su Hong Kong pensando anche alla soluzione di una questione delicata quale è Taiwan.
Non è credibile una campagna sulla «provincia» di Taiwan e sulla sua appartenenza all’unica Cina all’insegna di quel principio riassunto dalla formula «Un Paese, Due sistemi» se poi si nega al territorio la base della democrazia. Dunque via libera alle elezioni dirette Hong Kong con l’occhio rivolto a Taiwan. Quali effetti produrrà questa svolta si capirà fra qualche mese: in primavera si voterà sia a Taiwan sia nella ex colonia inglese (per il 50 per cento dei seggi). Appuntamenti osservati con interesse e preoccupazione dalla Repubblica Popolare. Se a Taiwan dovessero vincere gli indipendentisti e se a Hong Kong dovessero prevalere i democratici più ostinati che chiedono di avvicinare l’appuntamento con il suffragio universale il castello rischia di franare e la situazione diverrebbe complicata. La mediazione raggiunta (elezioni in due tappe) vuole evitare l’insorgere di pericolose tensioni. Ed è il segnale (da verificare) che nella nomenklatura del partito comunista si stanno aprendo nuovi spazi di un neopragmatismo impermeabile ai vecchi schemi ideologici.