Carlo Verdelli, La Gazzetta dello Sport 30/12/2007, 30 dicembre 2007
Ridendo e scherzando, l’Italia del 2007 l’ha salvata lo sport. Nell’elenco dei benemeriti compaiono Ferrari e Ducati, i ragazzi del Milan e quelli del Follonica (hockey su pista), Paolo Bettini e Marta Bastianelli (ciclismo su strada), l’inesauribile Valentina Vezzali e l’inaffondabile Filippo Magnini
Ridendo e scherzando, l’Italia del 2007 l’ha salvata lo sport. Nell’elenco dei benemeriti compaiono Ferrari e Ducati, i ragazzi del Milan e quelli del Follonica (hockey su pista), Paolo Bettini e Marta Bastianelli (ciclismo su strada), l’inesauribile Valentina Vezzali e l’inaffondabile Filippo Magnini. Tutti campioni del mondo, tutti primi assoluti in qualcosa. Senza mettere in conto il fatto, molto più che simbolico, dell’Inghilterra che per rilanciarsi va a pescare come commissario tecnico quel Fabio Capello che da calciatore la castigò a Wembley e che adesso, da allenatore, è così quotato da far passare in secondo piano il fatto di essere uno straniero (e si sa quanto conti, da quelle parti, avere i quarti di nobiltà che solo la nascita nel Paese che ha inventato il football può garantire). Ancora, è italiana Nives Meroi che, a mani nude e senza l’aiutino dell’ossigeno supplementare, è la prima alpinista ad avere agguantato dieci delle quattordici vette sopra gli 8 mila metri, ultima quella dell’Everest. E sono italiani gli iridati di canottaggio, motonautica, pugilato dilettanti, tiro con l’arco, enduro… Sono le persone che fanno l’immagine di un Paese, le persone e i fatti. Per quanto ci sforziamo di ricordare, grandi imprese che abbiano dato lustro all’italianità non ci sovvengono. Sì, il ruolo avuto nel raggiungimento della moratoria sulla pena di morte, con i nostri politici, per una volta, a brillare per spirito d’iniziativa. Oppure, su tutt’altro versante, l’inattesa love story tra una piemontese come Carla Bruni e il neo presidente francese Nicolas Sarkozy. Brandelli d’Italia che non bastano a compensare un’annata che ci ha visti, agli occhi degli altri, depressi, litigiosi, friabili: un Paese in retromarcia, dipinto crudamente da due inchieste di un certo peso sulla ribalta internazionale come quella del «New York Times» e a seguire quella del «Times» di Londra, intitolata: «Declino e caduta: la dolce vita diventa amara». I dati prodotti a sostegno di queste tesi non sono incoraggianti: popolazione a crescita zero, età media di 42,5 anni contro i 38,5 della Gran Bretagna (e un italiano su cinque sopra i 65 anni), tasso di disoccupazione al 7 per cento, il più alto tra un concerto di 76 nazioni tra cui Romania, Nigeria, Cambogia e Ucraina. P er carità, magari sono critiche malevole, luoghi comuni (Italia vecchia, Italia pigra…) che vanno a sostituire altre amenità del passato recente (Italia mafia, Italia pizza e mandolino…). Resta il fatto che, ridendo e scherzando, per fortuna che c’è lo sport. E forse dovremmo ricordarcelo al momento di stilare le priorità per il nuovo anno: non tanto per un principio etico ma per un banalissimo tornaconto. Quanto ha contato il «made in Italy» nel farci diventare un Paese leader nel dettare la moda a tutti gli altri? E quanto può contare la nostra eccellenza in tanti sport nell’ottenere nuove attenzioni e consenso? Alla fine del 2007 la bilancia tra i più e i meno dà l’impressione di pendere dalla parte dei più. Lo scandalo del calcio che ha infiammato l’estate 2006 sta per essere riassorbito, gli ultimi rivoli delle intercettazioni fanno più tristezza che paura e comunque ci penserà la giustizia civile a chiudere definitivamente il caso. Nel ciclismo sembra proprio che siamo arrivati all’anno zero: lotta mai così ferma al doping e percorsi dei grandi giri resi un po’ più umani per non indurre nessuno in tentazione. Poi c’è la Ferrari che ha vinto anche contro lo spionaggio, l’atletica (da Howe alla simpaticissima Assunta Legnante) che entra piena di speranze nell’anno dell’Olimpiade cinese, le fantastiche ragazze della pallavolo che nell’attesa sono andate a prendersi il titolo europeo… Che cosa vogliamo fare, che cosa possiamo fare per dare radici più solide e ali più grandi a questo movimento? Non è un quesito che riguarda soltanto il Coni o il ministero dello Sport. un’opportunità che sarebbe delittuoso non cogliere. Si tratta di mettere mano ai gangli vitali della cultura di un Paese, sfondare con coraggio i programmi ministeriali sulla scuola (dove l’ora di ginnastica vale meno di qualunque altra), cogliere l’occasione dell’Olimpiade di Pechino per riscattare lo sport dall’angolo dove è recintato e farlo diventare un biglietto da visita dell’Italia che non si rassegna ad appassire. Perché questa Italia c’è davvero, continua ad ardere sotto la cenere, aspetta solo l’occasione buona per uscire dai blocchi e rimettersi a correre. Prodi ciclista, Berlusconi anima del Milan mondiale: governo e opposizione sembrano trovare un punto di contatto, forse l’unico, proprio sul terreno della passione sportiva. Ci facessero il regalo di mettersi intorno a un tavolo e provassero a ragionare sul «fattore S». Ridendo e scherzando, magari troverebbero anche un antidoto alla fuga del pubblico dagli stadi di calcio (da un’inchiesta del «Corriere della Sera» siamo passati dai 34 mila paganti a partita del campionato 1991-92 ai 24 mila del 2004-05, il che ci fa scivolare fuori dal podio dell’Europa, dove comanda la Bundesliga con 40 mila paganti, seguita dalla Premier League con 34 mila e dalla Liga spagnola con 29 mila). Come direbbe Sacchi: c’è bisogno di una ripartenza. L’Europeo di calcio allungato tra Svizzera e Austria più Pechino 2008 sono il trampolino di lancio ideale. Lo sport non chiede di meglio che di scendere in campo, con la sua capacità di essere ambasciatore del marchio Italia e con quella, non secondaria, di rappresentare un modello di vita per studenti che di modelli intorno ne hanno sempre meno. Fatelo giocare, fateci giocare.