Vari, 29 dicembre 2007
DISCUSSIONE SULLA COSTITUZIONALITà DEL REFERENDUM ELETTORALE: ZAGREBELSKY-PANEBIANCO-BASSANINI-SALVI-PANEBIANCO
LA REPUBBLICA 24/12/2007
GUSTAVO ZAGREBELSKY
C’ è, nel nostro Paese, qualcuno che si preoccupa della dignità e del buon nome delle istituzioni - nel nostro caso, della Corte costituzionale - confidando al suo diario le sue apprensioni. E, per fortuna, c’ è un giornalista che è riuscito a dargli un’ occhiata e, così, a riferircene dettagliatamente i contenuti (Corriere della sera, 19 dicembre). Dico per fortuna, perché l’ autore del calepino custodito nel suo studio d’ avvocato, dove sono consegnati «ricordi di giorni lieti e burrascosi», è una di quelle persone che «non rilasciano dichiarazioni e tanto meno interviste»: è Romano Vaccarella, giudice della Corte costituzionale per 5 anni e 1 giorno, invece che per i nove anni stabiliti dalla Costituzione, dimessosi l’ aprile scorso per protesta contro le «voci mai smentite di pressioni esercitate dai politici sulla Consulta per bocciare i referendum elettorali» e contro i «vertici istituzionali che tacciono», una protesta rinnovata in questi giorni, nell’ imminenza della decisione di ammissibilità o di inammissibilità della Corte circa quei referendum. Di che cosa stiamo parlando? Non di trame segrete, di frequentazioni ambigue, di contiguità d’ interessi politici, economici o professionali: queste sì, quando ci sono, sono allarmanti. Stiamo parlando di dichiarazioni pubbliche di uomini di governo circa il contenuto della decisione della Corte, ch’ essi prevedono, auspicano e perfino considerano l’ unica possibile, perché la sola giuridicamente corretta. E c’ è da scandalizzarsi? Forse sì, ma solo nel paese delle meraviglie di Alice. Il presidente degli Stati Uniti Eisenhower, per ottenere dalla Corte Suprema una pronuncia diversa da quella che fu poi data nel caso Brown, in tema di integrazione razziale nelle scuole, tentò in tutti i modi (anch’ essi "mai smentiti", anzi testimoniati nelle memorie del giudice Frankfurter) di piegare i componenti della Corte, a iniziare dal suo presidente Earl Warren (la cui nomina egli stesso, Eisenhower, definì «il suo più grande errore»). SEGUE A PAGINA 19 La Corte Suprema di Israele del presidente Aharon Barak, affrontando temi intrecciati con il "diritto biblico" dovette fronteggiare manifestazioni popolari di centinaia di migliaia di persone convocate, ora dai partiti religiosi ora da quelli laici, nei piazzali che circondano il modernissimo e splendido edificio, ricco di richiami alla tradizione, in cui essa ha sede. Il Conseil constitutionnel francese, a sua volta, ha subìto l’ attacco intimidatorio di interi settori dell’ Assemblea nazionale, che lo bollarono addirittura, dal luogo dove si riunisce, come la "banda del Palais Royal", al tempo in cui George Vedel scriveva la grande decisione sulle nazionalizzazioni disposte dal governo Mitterrand. E noi ci facciamo turbare delle frasi dette da questo o quello, dei nostri uomini politici. Suvvia! E invochiamo l’ intervento dei "vertici istituzionali" a difesa dell’ indipendenza della Corte. Crede il professor Vaccarella che quei "poveretti" di Warren, Barak o Vedel abbiano avuto bisogno dell’ intervento di chicchessia, di qualsivoglia "vertice istituzionale", per poter fare liberamente il proprio dovere? Forse che la nostra Corte non è anch’ essa un vertice istituzionale e forse che ha bisogno di difesa o tutela, conformemente a ciò che il presidente del comitato per il referendum, Guzzetta, ha richiesto al Capo dello Stato di fare? Il quale, a quel punto, non ha potuto che dichiarare la sua «fiducia assoluta nella competenza e nell’ autonomia della Corte». Il suo silenzio avrebbe infatti avallato l’ idea di chissà quali pressioni e chissà quali cedimenti. Tutto questo, al di là delle prime apparenze, è offensivo per la Corte. Essa deve non sapere che farsi, di protezioni, difese, tutele. La dichiarazione del Presidente della Repubblica non è stata che lo sbocco obbligato di una successione di atti totalmente scorretta. Forse che il massimo organo di garanzia della Costituzione, i cui componenti godono di tutte le possibili garanzie d’ indipendenza, ha bisogno di essere "tutelato" da qualcun altro? Forse che esso dipende dalla "fiducia" che qualche altro organo, quale che sia, le conceda? Non sa "tutelarsi" da sé, semplicemente facendo uso delle prerogative di autonomia che la Costituzione le concede in somma misura, una misura che non si riscontra con riguardo a nessun altro organo costituzionale? Una Corte che ha bisogno della protezione d’ altri? Diffondere questa idea, questo davvero è un attentato alla sua indipendenza. La denuncia di pressioni derivanti da pubbliche dichiarazioni che qualunque giudice degno di questo nome considererebbe per quello che sono, cioè nulla, è fumo che nasconde dell’ altro. Nasconde, essa sì, una pressione morale nei confronti della Corte. Se, per avventura, i giudici che la compongono si orientassero a dichiarare inammissibile il referendum che attribuisce un mai visto "premio di maggioranza" alla lista che ottiene un numero di voti qualunque, anche molto basso, purché superiore a quello di ognuna delle altre liste, la denuncia preventiva di pressioni esercitate in tal senso nei loro confronti potrebbe forse trattenerli dal farlo: i denuncianti hanno infatti già detto che in ciò, per l’ appunto, sta la prova del cedimento. Per dimostrare la sua indipendenza, la Corte costituzionale avrebbe allora una sola via, una via obbligata: l’ altra, cioè dare il via libera al referendum. Se ciò significa difendere l’ indipendenza della Corte, chiunque è in grado di giudicare. Nulla è peggio che la protezione che è offerta da protettori interessati.
CORRIERE DELLA SERA 27/12/2007
ANGELO PANEBIANCO
Si avvicina il momento in cui la Corte costituzionale dovrà decidere dell’ ammissibilità dei referendum elettorali (la sentenza è prevista per metà gennaio). Sarà una decisione che avrà rilevantissimi effetti sul sistema politico italiano. Tutti trattengono il fiato mentre circolano voci su pressioni esercitate sulla Corte per spingerla a dichiarare inammissibili i referendum: soprattutto il più temuto dai partiti piccoli, quello che sposterebbe il premio di maggioranza dalla coalizione di partiti al singolo partito. Sul tema è intervenuto, con la sua autorevolezza di ex presidente della Corte e di fine giurista, Gustavo Zagrebelsky (La Repubblica, 24 dicembre). Zagrebelsky ha usato due argomenti. Il primo mi è parso ineccepibile. Il secondo, invece, mi ha lasciato assai perplesso. Zagrebelsky ha sicuramente ragione quando osserva che le Corti costituzionali o supreme vivono nel mondo e che ci sono sempre stati, in tutte le democrazie che ne dispongono, tentativi di influenzarne le decisioni. Non vale la pena di scandalizzarsene. Come nel caso di altre Corti, anche la nostra Corte costituzionale dispone di difese, di anticorpi, il più importante dei quali sta nelle garanzie di indipendenza che le assicura la Carta. Le dichiarazioni pubbliche, più o meno incrociate, tese a influenzare in un modo o nell’ altro il verdetto della Corte finiscono in genere per elidersi: i giudici sanno come difendersi dalla pressione esterna, sanno difendere la propria indipendenza di giudizio. Zabrebelsky parla qui forte anche della sua esperienza alla Consulta, e non si può che credergli. La perplessità è invece legata al secondo argomento che Zagrebelsky ha introdotto e con il quale è entrato nel merito del referendum elettorale. Come si potrebbero criticare i giudici, dice Zagrebelsky, se essi dichiarassero inammissibile un referendum che (vale la pena di citare testualmente le sue parole) «attribuisce un mai visto "premio di maggioranza" alla lista che ottiene un numero di voti qualunque, anche molto basso, purché superiore a quello di ognuna delle altre liste»? Qui non è chiaro se Zagrebelsky ritenga che la Corte dovrebbe dichiarare inammissibile il referendum a causa di quanto egli afferma oppure se si tratta, semplicemente, della sua personale opinione (evidentemente negativa) sul contenuto del referendum. Mi sembrerebbe strano che fosse vera la prima ipotesi. La Corte infatti, se non erro, deve ora solo, in quella sede, pronunciarsi sull’ ammissibilità del quesito alla luce di quanto prescrive l’ articolo 75 (relativo alle condizioni di ammissibilità/inammissibilità) della Costituzione. Resta dunque la seconda ipotesi. Zagrebelsky ha forse voluto dichiarare la sua personale avversione al contenuto del referendum. La cosa è più che legittima, naturalmente, ma l’ argomentazione usata mi è parsa debolissima. CONTINUA A PAGINA 10 * * * L’ editoriale Referendum, i quesiti e i confini della Corte SEGUE DALLA PRIMA Per cominciare, non c’ è alcuna differenza di principio fra premio di maggioranza a una coalizione di liste (prevista dalla legge elettorale attuale) e premio di maggioranza a una sola lista. Nulla vieta infatti, in linea di principio, che le coalizioni che si formano in una campagna elettorale siano tante e che una coalizione prevalga (aggiudicandosi il premio) «con un numero di voti qualunque, anche molto basso». Tra l’ altro, è quello che, in linea di principio, può benissimo accadere anche nei sistemi maggioritari con collegi uninominali: nulla vieta che in un collegio i voti si distribuiscano quasi equamente tra moltissimi candidati e che il vincitore ottenga pochi voti (purché, si intende, almeno uno più degli altri). In pratica, questo, per lo più, non succede: se c’ è un premio alle coalizioni, gli elettori tendono a indirizzare i voti sulle due che hanno più probabilità di prevalere mentre nei collegi uninominali li concentrano sui due o tre candidati più quotati. Non ho dubbi che se si votasse con la legge prevista dal referendum il grosso degli elettori concentrerebbe i voti sulle due liste concorrenti percepite come più forti. Più in generale, non si può proprio definire «mai visto» un qualsivoglia sistema elettorale che dia la vittoria a chi ottiene - persino, eventualmente, con una bassissima percentuale di voti - anche un solo voto in più degli altri. La notissima espressione inglese first past post usata per qualificare i sistemi maggioritari a un turno indica precisamente ciò. Anche se può fare orrore alla mentalità proporzionalistica, tuttora così diffusa nel nostro Paese, si tratta del principio cui si ispirano (in genere, vivendo piuttosto bene) le democrazie maggioritarie. Spero che la Corte dichiari i referendum ammissibili e che, durante la campagna referendaria, si possa di nuovo incrociare i fioretti: da un lato, i fautori del principio «maggioritario» (come me e come altri), dall’ altro i «proporzionalisti», come Zagrebelsky e altri.
CORRIERE DELLA SERA 29/12/2007
FRANCO BASSANINI
Caro direttore, gli editoriali di Panebianco meritano sempre attenzione. Compreso l’ultimo, nel quale discute con Zagrebelsky di referendum e Corte costituzionale. Su un punto cruciale i due concordano: l’allarme per le pressioni politiche volte a influenzare il giudizio sulla ammissibilità dei referendum elettorali è ingiustificato. Per le garanzie di indipendenza di cui gode e per la autorevolezza dei suoi membri, la Corte è al di sopra di ogni sospetto. Ha dunque ragione Giorgio Napolitano, che ha richiamato tutti (compresi i referendari) a non alimentare infondati timori, a non mettere in dubbio l’affidabilità e l’imparzialità di una istituzione cardine della Repubblica.
Meno convincenti mi sembrano le critiche rivolte a Zagrebelsky da Panebianco. A partire dall’affermazione finale: che il referendum consentirà un limpido confronto tra i sostenitori dei sistemi maggioritari e i «proporzionalisti». Non so se Zagrebelsky si collochi tra questi ultimi. Ma so che il referendum, se si terrà, vedrà i fautori di un buon sistema maggioritario come quello francese (uninominale a doppio turno) dividersi più o meno a metà tra NO e SI; ed altrettanto avverrà per i sostenitori di sistemi proporzionali ben congegnati come quelli in uso in Spagna e in Germania.
Al netto della funzione di stimolo nei confronti dei partiti, il referendum mostra infatti i suoi limiti. Non offre rimedio ai più sciagurati difetti del «porcellum ». Lascia nelle mani dei segretari dei partiti la scelta degli eletti, grazie alle lunghe liste bloccate. Non elimina il rischio di ingovernabilità del Senato; né quello di maggioranze contrapposte tra Camera e Senato, entrambe chiamate a votare la fiducia al Governo; e neppure quello di coalizioni «acchiappa tutti» (da Rauti a Tabacci, da Dini a Turigliatto), buone per vincere, ma non per governare: costringerebbe solo a collocare tutti in due soli «listoni» bloccati. E’ vero che quest’ultimo difetto può essere corretto da comportamenti virtuosi, se i maggiori partiti decideranno di correre da soli, come Veltroni ha proposto. Ma ciò è, a ben vedere, possibile anche nel sistema vigente. Se non lo si è fatto, è per due ragioni.
La prima è ricordata da Zagrebelsky. Attribuire comunque la maggioranza assoluta al partito che ha preso un voto più degli altri è una soluzione del tutto anomala (non vale infatti il richiamo ai sistemi uninominali maggioritari, nei quali ogni distretto – ogni città, ogni contea – elegge il suo deputato con limpide competizioni maggioritarie, attivando un rapporto diretto tra elettori ed eletto). Essa pone anche problemi di costituzionalità, in specie in un Paese nel quale basta la metà più uno dei parlamentari per cambiare la Costituzione, salva la conferma referendaria (Bush e Sarkozy hanno invece bisogno, per fare altrettanto, dei voti dell’opposizione o almeno di una parte di essa). La seconda ragione è che nessun paese europeo ha due soli partiti. Occorre, certo, una forte riduzione del numero dei partiti: ma imporre per legge il bipartitismo è velleitario e comprimerebbe troppo la libertà di scelta degli elettori.
Il referendum non deve dunque diventare un alibi per eludere la responsabilità dei partiti. A loro spetta approvare una legge elettorale che riduca la frammentazione partitica, promuova la formazione di coalizioni omogenee e coese, restituisca ai cittadini il potere di scegliere tra i candidati; e insieme approvare le necessarie riforme della Costituzione, dei regolamenti parlamentari, della legge sul finanziamento dei partiti. Le Commissioni Affari costituzionali delle due Camere ci stanno provando. Speriamo arrivino in porto, in tempo utile.
Franco Bassanini Franco Bassanini, già ministro e artefice della riforma della pubblica amministrazione
CORRIERE DELLA SERA 29/12/2007
CESARE SALVI
Caro direttore, c’è un punto dell’editoriale di Angelo Panebianco pubblicato sul Corriere della Sera del 27 dicembre, su Corte Costituzionale e referendum elettorale, che merita una precisazione «in punto di diritto», come dicono i giuristi. L’editorialista scrive, interloquendo criticamente con le posizioni espresse su questo giornale da Gustavo Zagrebelsky, che «la Corte, se non erro, deve ora solo pronunciarsi, in quella sede, sull’ammissibilità del quesito alla luce dell’articolo 75 della Costituzione». In realtà la Corte Costituzionale, nell’esaminare l’ammissibilità dei quesiti, si è riservata uno spazio per valutarne la coerenza con i principi democratici che sono alla base della nostra Costituzione.
E’ con questa motivazione, ad esempio, che ha ritenuto di recente, con la sentenza numero 45 del 2005, di dichiarare inammissibile il referendum che aveva ad oggetto l’intera legge sulla fecondazione assistita.
In ogni caso, è giusto che le diverse posizioni siano espresse non attraverso dichiarazioni di esponenti politici, ma nella sede del contraddittorio davanti alla Corte Costituzionale. E’ questo il motivo per il quale Sinistra Democratica ha deciso di partecipare al giudizio di ammissibilità con una propria memoria, nella quale sottoporrà alla Corte le ragioni, per altro espresse in sede scientifica da numerosi costituzionalisti, per le quali a suo giudizio i quesiti devono considerarsi inammissibili.
Naturalmente quale che sarà la decisione della Corte, dovrà poi essere rispettata da tutti.
Cesare Salvi
CORRIERE DELLA SERA 29/12/2007
ANGELO PANEBIANCO
Caro direttore, gli editoriali di Panebianco meritano sempre attenzione. Compreso l’ultimo, nel quale discute con Zagrebelsky di referendum e Corte costituzionale. Su un punto cruciale i due concordano: l’allarme per le pressioni politiche volte a influenzare il giudizio sulla ammissibilità dei referendum elettorali è ingiustificato. Per le garanzie di indipendenza di cui gode e per la autorevolezza dei suoi membri, la Corte è al di sopra di ogni sospetto. Ha dunque ragione Giorgio Napolitano, che ha richiamato tutti (compresi i referendari) a non alimentare infondati timori, a non mettere in dubbio l’affidabilità e l’imparzialità di una istituzione cardine della Repubblica.
Meno convincenti mi sembrano le critiche rivolte a Zagrebelsky da Panebianco. A partire dall’affermazione finale: che il referendum consentirà un limpido confronto tra i sostenitori dei sistemi maggioritari e i «proporzionalisti». Non so se Zagrebelsky si collochi tra questi ultimi. Ma so che il referendum, se si terrà, vedrà i fautori di un buon sistema maggioritario come quello francese (uninominale a doppio turno) dividersi più o meno a metà tra NO e SI; ed altrettanto avverrà per i sostenitori di sistemi proporzionali ben congegnati come quelli in uso in Spagna e in Germania.
Al netto della funzione di stimolo nei confronti dei partiti, il referendum mostra infatti i suoi limiti. Non offre rimedio ai più sciagurati difetti del «porcellum ». Lascia nelle mani dei segretari dei partiti la scelta degli eletti, grazie alle lunghe liste bloccate. Non elimina il rischio di ingovernabilità del Senato; né quello di maggioranze contrapposte tra Camera e Senato, entrambe chiamate a votare la fiducia al Governo; e neppure quello di coalizioni «acchiappa tutti» (da Rauti a Tabacci, da Dini a Turigliatto), buone per vincere, ma non per governare: costringerebbe solo a collocare tutti in due soli «listoni» bloccati. E’ vero che quest’ultimo difetto può essere corretto da comportamenti virtuosi, se i maggiori partiti decideranno di correre da soli, come Veltroni ha proposto. Ma ciò è, a ben vedere, possibile anche nel sistema vigente. Se non lo si è fatto, è per due ragioni.
La prima è ricordata da Zagrebelsky. Attribuire comunque la maggioranza assoluta al partito che ha preso un voto più degli altri è una soluzione del tutto anomala (non vale infatti il richiamo ai sistemi uninominali maggioritari, nei quali ogni distretto – ogni città, ogni contea – elegge il suo deputato con limpide competizioni maggioritarie, attivando un rapporto diretto tra elettori ed eletto). Essa pone anche problemi di costituzionalità, in specie in un Paese nel quale basta la metà più uno dei parlamentari per cambiare la Costituzione, salva la conferma referendaria (Bush e Sarkozy hanno invece bisogno, per fare altrettanto, dei voti dell’opposizione o almeno di una parte di essa). La seconda ragione è che nessun paese europeo ha due soli partiti. Occorre, certo, una forte riduzione del numero dei partiti: ma imporre per legge il bipartitismo è velleitario e comprimerebbe troppo la libertà di scelta degli elettori.
Il referendum non deve dunque diventare un alibi per eludere la responsabilità dei partiti. A loro spetta approvare una legge elettorale che riduca la frammentazione partitica, promuova la formazione di coalizioni omogenee e coese, restituisca ai cittadini il potere di scegliere tra i candidati; e insieme approvare le necessarie riforme della Costituzione, dei regolamenti parlamentari, della legge sul finanziamento dei partiti. Le Commissioni Affari costituzionali delle due Camere ci stanno provando. Speriamo arrivino in porto, in tempo utile.
Franco Bassanini Franco Bassanini, già ministro e artefice della riforma della pubblica amministrazione
CORRIERE DELLA SERA 30/11/2007
Mastella, la Consulta e il referendum
Con tutto il rispetto e la stima per Francesco Verderami, non ho mai affermato che i favorevoli alla imminente consultazione referendaria «hanno due voti di vantaggio», come sostiene il giornalista a pagina 15 del Corriere della Sera di ieri. una frase che non ho mai pronunciato anche se resto contrario a un referendum – e in questo sono confortato dal parere di diversi autorevolissimi costituzionalisti – «che rischia di vulnerare il principio di uguaglianza e quello di ragionevolezza, attribuendo un premio eccessivo a chi ottenga una qualsiasi maggioranza relativa dei voti». «Una cosa infatti – come sostiene ad esempio il professor Cheli – è il premio di maggioranza riferito a una coalizione e all’obiettivo di favorire un accorpamento tra le forze in campo, altra cosa invece è riferire questo premio a una singola lista la cui composizione sfugge in partenza a ogni possibile e ragionevole previsione».
Clemente Mastella
Prendo atto delle parole del ministro Mastella, ma quanto ho scritto mi è stato riferito da persona degna di fede. ( Fra. Ver.)