Piergiorgio Odifreddi, L’espresso 26/12/2007, pagina 110., 26 dicembre 2007
Umani per caso. L’espresso, mercoledì 26 dicembre Il nome di Luca Cavalli-Sforza, professore di genetica all’Università di Stanford, è da mezzo secolo associato a un’area di ricerca che si potrebbe definire «archeologia o antropologia genetica», perché cerca di ricostruire la storia dell’umanità e delle sue migrazioni, a partire da un’analisi della variabilità genetica delle popolazioni
Umani per caso. L’espresso, mercoledì 26 dicembre Il nome di Luca Cavalli-Sforza, professore di genetica all’Università di Stanford, è da mezzo secolo associato a un’area di ricerca che si potrebbe definire «archeologia o antropologia genetica», perché cerca di ricostruire la storia dell’umanità e delle sue migrazioni, a partire da un’analisi della variabilità genetica delle popolazioni. Cavalli-Sforza ha riassunto i risultati di una vita di lavoro in "Geni, popoli e lingue", e li ha descritti nei particolari in "Storia e geografia dei geni umani", scritto in collaborazione con Paolo Menozzi e Alberto Piazza (ambedue Adelphi). Con Mondadori ha pubblicato "Perché la scienza. L’avventura di un ricercatore". L’abbiamo incontrato a casa sua a Milano, dove torna regolarmente da Stanford e dove ha spiegato, ancora una volta, che non esistono le razze umane e che tutti discendiamo da una stessa madre africana. Lei dice spesso che siamo tutti africani. «L’inizio della nostra specie è in Africa orientale. Per molto tempo ci siamo riprodotti lentamente, per la scarsezza del cibo: eravamo cacciatori e raccoglitori. Non sappiamo con esattezza quanti fossimo, forse fra i 100 mila e un milione. Ma intorno a 10 mila anni fa eravamo circa 5 milioni. A quel punto, in tutti i posti in cui c’erano forti concentrazioni di persone sono cominciate l’agricoltura e l’allevamento: la produzione di cibo». E discendiamo da un’unica madre... «Tutti noi abbiamo nelle cellule dei mitocondri (organi addetti alla respirazione cellulare, costituite da sacchette contenenti enzimi respiratori, ndr), che si trasmettono soltanto per via materna. Andando avanti, i mitocondri delle donne senza figli si estinguono. Risalendo invece all’indietro, si arriva sempre a trovare quello che si chiama l’ultimo antenato comune: una donna da cui discendono tutti i mitocondri odierni, che è l’Eva africana. All’epoca c’erano molte altre donne, ma i loro mitocondri si sono estinti nel corso del tempo». C’è anche un Adamo? «Sì. determinato in maniera analoga, guardando al cromosoma Y, che è trasmesso dal padre ai figli maschi». Ed è contemporaneo a Eva? «No. Eva potrebbe avere tra i 200 mila e i 130 mila anni, Adamo sui 100 mila. Il motivo è che gli uomini hanno più figli, perché sono più facilmente poligami delle donne. Si sposano più tardi e hanno meno generazioni. Ma muoiono in maggior percentuale delle donne: alla nascita i maschi sono il 5 per cento in più, a vent’anni sono pari alle femmine, e tra i centenari solo il 20 per cento è maschio». La genetica delle popolazioni coincide anche con la storia delle lingue? «Non ci si può aspettare una coincidenza perfetta, perché le lingue possono essere soppresse: sono bastati 150 guerrieri spagnoli a conquistare l’America e a imporre la loro lingua a un continente. Ma quando abbiamo raccolto i dati per la "Storia e geografia dei geni umani", ci siamo accorti che l’albero genetico assomigliava a quello linguistico: i gruppi geneticamente simili appartenevano alle stesse famiglie linguistiche. E abbiamo pensato a una spiegazione semplice, contenuta in una parola chiave: noi non sappiamo come si trasmettono le lingue, ma parliamo di "lingua madre". Dunque, pensiamo che le lingue si trasmettono anch’esse da genitori a figli, come le altre eredità genetiche». Lei è medico. Perché è passato alla genetica? «Mi ha convinto il mio professore, Adriano Buzzati-Traverso, del quale ho sposato la nipote. Buzzati era tornato dagli Stati Uniti con dei libri meravigliosi di statistica: in Italia non ne esistevano di ben fatti, e mi ero reso conto di averne bisogno». Considerava lo studio della matematica così importante? «Sì. Ma i matematici non sanno spiegare come la si usa, e per le applicazioni bisogna rivolgersi agli ingegneri. Comunque la matematica mi è servita. Ho cominciato la mia ricerca con la genetica dei batteri. E quando sir Ronald Fisher, uno dei padri della statistica moderna, mi sentì parlare al congresso di Stoccolma del 1948, mi offrì un posto a Cambridge: voleva lavorare sulla ricombinazione dei batteri, e gli serviva un genetista batterico.Nel 1950 Fisher aveva iniziato a usare le differenze di gruppi sanguigni per studiare l’ereditarietà: è partito col Rh, e ne ha tratto una bellissima teoria del gene. Però non è che su un gene si possa dire molto: si può trovare la storia di quel gene. Ma a Fisher interessava il fatto che alcune forme di questo gene ci sono nei primati vicini a noi, e altre no». questo che permette di andare a vedere i punti di separazione con le scimmie? «Certo, la storia genetica delle scimmie si conosce ormai molto bene. Ci sono due modi di procedere. Uno è studiare le proteine, che sono prodotti dei geni, e questo l’abbiamo fatto fino al 1980: dapprima con i gruppi sanguigni, poi con altre proteine, accumulando moltissimi dati. Dal 1982 abbiamo cominciato da capo, andando a guardare le differenze del Dna. E non solo abbiamo confermato tutto ciò che avevamo fatto con le proteine, ma siamo andati molto più avanti». In altre parole, c’è molta casualità e nessuna pianificazione delle specie, con buona pace dei creazionisti. «Infatti. La selezione serve solo a spiegare gli adattamenti selettivi, che dipendono dall’ambiente e non dalla storia. Ad esempio, il colore della pelle, che varia con la latitudine: all’equatore sono neri, e poi si schiariscono allontanandosene. Oppure le misure del corpo, che dipendono dal clima: al freddo la gente è bassa e tonda, perché così il rapporto tra volume e superficie è più vantaggioso, e si perde meno calore; al caldo, invece, sono lunghi e sottili. Al freddo gli arti sono piccoli, per non perdere troppo calore, mentre al caldo sono lunghi, e le braccia degli scimpanzè arrivano fino a terra». E come si studiano gli effetti della storia? «La natura fa le cose in maniera approssimativa, essendo costretta a usare ciò che ha a portata di mano: così genera molte mutazioni casuali, una piccola parte delle quali produce vantaggi evolutivi. La maggior parte delle mutazioni invece non serve a niente, rimane "sterile", ma sono proprio le mutazioni selettivamente neutre a permetterci di studiare la storia delle popolazioni, attraverso i metodi statistici propri dei fenomeni casuali. Il che è appunto quello che ho cominciato a fare nel 1950 a Parma». In che modo? «Avevo uno studente prete, Antonio Moroni, che conosceva tutti i parroci, e ha spiegato loro perché volevo prendere il sangue ai parrocchiani. Mi ha anche fatto avere il permesso di consultare i libri parrocchiali, che risalivano indietro di 500 anni. Ho potuto ricostruire le genealogie della popolazione e studiare l’effetto del caso, che in villaggi piccoli è molto forte. Ho analizzato le differenze tra i gruppi sanguigni in paesi di ogni dimensione e posizione: piccoli, medi e grandi, in montagna, collina e pianura». E cosa ha trovato? «Che i dati reali concordavano con le aspettative teoriche, ottenute con una simulazione che partiva da villaggi tutti uguali, e li lasciava diversificare casualmente per 400 o 500 anni: col tempo i paesini molto piccoli raggiungevano i corretti equilibri di variazione. Quel primo studio mi ha dato un motivo per credere che potevo incominciare a risalire indietro nell’evoluzione di 5 mila o 50 mila anni, basandomi sul fatto che si possono applicare le leggi del caso. Se invece tutto fosse dipeso dalla selezione, non si sarebbe saputo cosa attendersi». E quali sono stati i risultati? «Una decina d’anni dopo che avevo lasciato Cambridge, l’Università di Pavia comprò il primo calcolatore. E con un mio studente ricostruimmo un primo albero a partire da dati esistenti, relativi a 15 popolazioni mondiali: tre per ciascun continente, e tutte lontane l’una dall’altra. nell’albero l’Africa stava da un lato, e l’Europa nel mezzo. Le popolazioni dello stesso continente stavano insieme, e i continenti erano separati in base alla migrazione, nello stesso modo in cui sono disposti sulla carta geografica. Quello è stato il nostro primo lavoro, pubblicato nel 1963». Alla fine cosa si è ottenuto? «Si è precisata in maniera genetica la storia che gli antropologi avevano abbozzato, basandosi sui fossili. L’uomo moderno compare in Africa, e arriva in Medioriente 100 mila anni fa. Poi scompare di lì 80 mila anni fa, quando arriva il Neanderthal, che stava in Europa ed è migrato a causa del freddo. Quarantamila anni fa il Neanderthal scompare dovunque, e si estingue circa 25 mila nni fa: probabilmente per una questione di concorrenza con l’uomo moderno: cioè noi». Sono state fatte analisi dirette sul Neanderthal? «Sì, sul Dna mitocondriale, che è l’unico pezzo di cromosoma che si riesce a vedere in resti così vecchi: si sono studiati tre esemplari di regioni diverse, e sono risultati tutti e tre diversi dall’uomo moderno. Ma fino a 100 mila anni fa il Neanderthal e il Sapiens usavano gli stessi strumenti. Invece 50 mila anni fa, quando cominciarono a emigrare dall’Africa e invadere il resto del mondo, i Sapiens avevano ormai strumenti migliori. E uno di questi strumenti era il linguaggio». La scoperta di un’origine comune e africana dell’umanità non dovrebbe rendere ridicolo il razzismo? «Assolutamente. Io detesto tutti i fondamentalismi, quello cattolico in particolare, ma il mio impegno sociale è proprio sulle questioni del razzismo. Anche perché le differenze principali tra le popolazioni sono sempre dentro di esse, con buona pace di chi parla di "razze pure"». Piergiorgio Odifreddi