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 2007  dicembre 27 Giovedì calendario

Gli esperimenti più belli del mondo. Panorama 27 dicembre 2007. La scala, nel senso della vastità delle dimensioni, fisiche, o intellettuali, è ciò che li accomuna

Gli esperimenti più belli del mondo. Panorama 27 dicembre 2007. La scala, nel senso della vastità delle dimensioni, fisiche, o intellettuali, è ciò che li accomuna. Sono progetti in cui sono coinvolti migliaia di scienziati al mondo. Che richiedono strumenti al limite della tecnologia; che si svolgono in ambienti estremi, come il fondo dell’oceano. E che cercano di rispondere a domande tra le più affascinanti. Com’era l’universo alla sua nascita? Quali forme di vita restano da scoprire? Come funziona il nostro cervello? Panorama ha scelto quattro dei progetti scientifici più ambiziosi, per fare il punto su ciò che da essi ci si aspetta e sul contributo dell’Italia. SCONTRI FRA PARTICELLE La «prima» è prevista nell’estate 2008. Un evento atteso da anni dai fisici di tutto il mondo, e molto anche dall’Italia che, attraverso l’Istituto nazionale di fisica nucleare, contribuisce per il 10 per cento ai finanziamenti: il Large hadron collider (Lhc), nuovo acceleratore di particelle costruito al Cern di Ginevra, comincerà a far scontrare le prime particelle subatomiche a energie senza precedenti. Nell’anello di 27 km allestito in un tunnel sotterraneo sul confine franco-svizzero fasci di protoni che corrono in direzioni opposte si scontreranno frontalmente 40 milioni di volte al secondo, disintegrandosi in altre particelle e spruzzi di energia. A registrare l’impronta di questi urti, che avvengono alle energie più alte possibile al mondo per riprodurre le condizioni dell’universo al momento della sua nascita, saranno quattro esperimenti, come vengono chiamati in gergo. Queste macchine gigantesche, costruite in caverne lungo il percorso dell’acceleratore, sono rivelatori che servono a ricostruire il cammino e l’energia degli sciami di particelle prodotte nelle collisioni e a dedurre da queste tracce le loro proprietà. Fabiola Gianotti, viceresponsabile internazionale della collaborazione Atlas, uno dei quattro esperimenti cui lavorano 2 mila fisici da 37 paesi, attende questo momento da più di 15 anni. «Da quando ero studentessa». La partita, per la fisica, è decisiva. Si tratta di capire a fondo uno degli aspetti più importanti della realtà, vale a dire la natura della massa. Finora le equazioni del cosiddetto Modello standard, con la sua descrizione delle particelle e delle forze fondamentali della natura, ha retto alla verifiche. Manca all’appello una particella misteriosa, il bosone di Higgs, chiamato anche la «particella di Dio», che servirebbe a spiegare come tutte le altre particelle acquisiscono la loro massa. Trovarlo è cruciale. Non solo perché sarebbe la conferma di una teoria su cui si regge tutta la fisica fondamentale, ma anche perché, a seconda delle sue caratteristiche e del livello di energia a cui verrà eventualmente trovato, si potrebbero aprire altri orizzonti per nuove teorie della fisica. Potrebbero esserci fenomeni strani cui gli scienziati non hanno pensato. «Abbiamo qualche idea di ciò che potrebbe accadere alle energie che l’Lhc esplorerà, ma non sappiamo di preciso che cosa la natura ha scelto» dice Gianotti. Da questo punto in avanti, le sorprese sono quello in cui i fisici sperano. chi abita sott’acqua? Il nome dice da solo di cosa si tratta: un censimento delle forme di vita marine. La domanda a cui devono rispondere i ricercatori del Census of marine life è: chi vive negli oceani? Scoprirlo è molto meno facile di quel che sembra, visto che il 95 per cento degli oceani è inesplorato e si stima che in mare esistano almeno 3 milioni e mezzo di specie ancora da scoprire. Duemila ricercatori di oltre 80 paesi lavorano a questo progetto. «Per la comprensione della natura e della vita è più importante del Progetto genoma umano» ritiene Roberto Danovaro, docente di biologia marina all’Università politecnica delle Marche e membro esecutivo del Census dopo che l’Italia, nel 2005, è entrata a farne parte. Il progetto è partito nel 2000 e il primo rapporto globale verrà reso pubblico nel 2010. Per semplificare il lavoro di catalogazione, gli organismi del mare sono stati divisi in sottogruppi: quelli appartenenti alle barriere coralline, alle scarpate continentali, alle piane abissali sul fondo degli oceani, all’Artico o all’Antartide e così via, studiati in rappresentanza dei vari ecosistemi oceanici. I ricercatori setacciano i mari su navi equipaggiate con sommergibili, veicoli sottomarini comandati a distanza, o autonomi. Trascinano strumenti dotati di sensori per misurare varie caratteristiche dell’acqua, dalla temperatura alla corrente. O seguono gli spostamenti di animali come squali, delfini, tartarughe per studiarne abitudini e comportamento. Finora nessuna delusione. Ogni volta che hanno immerso le reti o prelevato campioni di fondali dagli abissi, gli scienziati hanno tirato su una messe di specie mai viste: gamberi ritenuti estinti, granchi ricoperti di peli, aragoste di 2 chili, microbi giganti, un branco di pesci esteso come un’isola, per citare solo le ultime. La pesca più ricca è stata fatta nelle zone più inospitali, gli abissi oceanici, bui e con pressioni altissime, che si ritenevano inadatti alla vita, o sotto i ghiacci dell’Artico e dell’Antartide. L’anno scorso, la nave tedesca Polarstern ha scoperto oltre 700 nuove specie sui fondali del Polo Sud. Ma anche più vicino a casa c’è di che sorprendersi: Monty Priede, dell’Università inglese di Aberdeen, che ha partecipato a una spedizione alla dorsale medioatlantica, ha parlato di questa catena montuosa sottomarina sul fondo dell’Atlantico come «di un nuovo continente a metà strada tra Europa e America», con specie sconosciute o diverse da quelle cui siamo abituati. Si scopre anche che gli oceani del passato erano molto più popolati di oggi. In collaborazione con gli storici, gli studiosi del mare hanno cominciato a esaminare documenti del passato e a confrontarli con la situazione di oggi. Ai Caraibi, per esempio, i diari del pirata William Dampier parlavano di una quantità straordinaria di tartarughe: in base ai loro richiami le navi pirata puntavano verso la riva se perdevano l’orientamento. Altro caso, il tonno rosso nel Mare del Nord: dopo la pesca intensiva dagli anni 20 agli anni 50, si è visto che sono scomparsi al largo delle coste dell’Europa del Nord. UN CERVELLO VIRTUALE L’istologo Santiago Ramón y Cajal aveva chiamato i neuroni «le misteriose farfalle dell’anima». Le cellule cerebrali non sono più un mistero per gli scienziati, ma lo è ancora il cervello nel suo complesso: 1 chilo e 300 grammi di peso per uno degli oggetti più complicati dell’universo. Un gruppo di ricerca dell’Ecole polytechnique fédérale di Losanna sta lavorando al Blue brain project, simulazione al computer di un cervello umano «neurone per neurone» e del suo milione di miliardi di connessioni. Obiettivo da raggiungere per il 2015. A fornire la forza bruta necessaria per questo titanico lavoro di computazione è uno dei supercomputer della Ibm, che collabora al progetto. Il neuroscienziato Henry Markram, a capo del progetto, è partito dai topi. Finora ha riprodotto virtualmente una colonna neocorticale, l’unità di base in cui è organizzata la materia cerebrale. D’ora in avanti, secondo lui, sarà questione di scala prima di avere un cervello virtuale in cui studiare il funzionamento della memoria o testare l’effetto dei farmaci. IL POZZO PIù PROFONDO Per spiegare cosa fanno gli scienziati che lavorano all’Integrated ocean drilling program (Iodp) viene sempre chiamato in causa Jules Verne e il viaggio del suo professor Lindenbrook verso il centro della Terra. Perché in questo consiste il progetto: trivellare pozzi sul fondo degli oceani, più profondi possibile, e da rocce e sedimenti tirati fuori di lì studiare cosa sta succedendo al pianeta. «Dalle carote di sedimenti si ricavano informazioni sulla dinamica interna del pianeta, sui terremoti, sul clima del passato e sugli organismi che vivono all’interno della crosta terrestre» riassume Leonardo Sagnotti dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv), e membro del gruppo italiano di riferimento dell’Iodp. Negli anni 50 un progetto chiamato Mohole, presto abbandonato per mancanza di finanziamenti, pensava di perforare la crosta terrestre fino ad arrivare al mantello, a circa 7 chilometri sul fondo dell’oceano. Ma neppure oggi ci siamo lontanamente vicini. Da vent’anni, a bordo di piattaforme, scienziati di tutto il mondo perforano il letto dell’oceano, ma la profondità massima cui si è arrivati è di un paio di chilometri (sotto i piedi, per arrivare al centro della Terra, ne abbiamo 6.400). Un nuovo impulso al progetto verrà dato dalla nuova nave Chikyu, costruita dal Giappone e costata quasi 600 milioni di dollari, che con la sua torre di perforazione potrà arrivare a 7 chilometri di profondità. La sua prima missione, conclusa a metà novembre, è stata al largo delle coste giapponesi. Gli scienziati hanno perforato in 12 punti, fino a circa 1 chilometro e mezzo di profondità, la fossa di Nankai, una delle zone di scontro tra placche dove si generano i terremoti e i maremoti più forti, e dove se ne aspettano di altrettanto catastrofici per il futuro. «Servirà a capire meglio come si generano i terremoti in tutto il mondo» spiega Sagnotti. La ricerca sul clima delle ere geologiche passate progredisce soprattutto grazie ai carotaggi svolti dal programma. Per esempio, dai sedimenti estratti perforando il fondale dell’oceano artico i ricercatori hanno dedotto che 55 milioni di anni fa al Polo Nord faceva caldo come ai Caraibi (temperatura dell’acqua sui 20 gradi), e che quel riscaldamento esplosivo fu opera soprattutto di gas serra. «I dati fondamentali da inserire nei modelli per le previsioni del clima nel futuro» dice Marco Sacchi, ricercatore del Cnr e presidente del gruppo di riferimento per l’Italia dell’Iodp. Tutte questioni all’ordine del giorno. Peccato che la partecipazione dell’Italia al progetto sopravviva solo grazie alla buona volontà dei ricercatori che racimolano presso i loro enti i fondi necessari. Con la somma con cui contribuisce, l’Italia avrebbe diritto a far partecipare un ricercatore l’anno. Ora si cerca di arrivare almeno a una convenzione fra gli enti interessati che permetterebbe al nostro Paese di presentarsi come un unico soggetto. «Con un indubbio miglioramento di immagine» dice Sacchi. CHIARA PALMERINI