La Stampa 24/12/2007, PIERANGELO SAPEGNO, 24 dicembre 2007
”Sono un genio e me ne pento”. La Stampa 24 Dicembre 2007. ALBA (Cuneo). Lo chiamavano il genio, quando andava a scuola al liceo di Alba e sognava di diventare grande
”Sono un genio e me ne pento”. La Stampa 24 Dicembre 2007. ALBA (Cuneo). Lo chiamavano il genio, quando andava a scuola al liceo di Alba e sognava di diventare grande. Adesso che è grande, a 35 anni, quello che faceva allora non è servito a niente. Non ha un lavoro. E la matematica è una memoria inutile. Non sappiamo se è giusto, ma è così. Il giorno dell’esame di Stato, 17 anni fa, al compito di matematica, entrò in ritardo, scivolando un po’ sbilenco sulle mattonelle dell’aula, tutto affannato. Non aveva sentito il professore: «Vi do un consiglio. Non perdete tempo con il primo esercizio. E’ troppo difficile». Per questo, lui lo affrontò subito. Ma lo chiamavano il genio per come faceva i compiti di matematica. Dopo un’ora aveva già finito. Consegnò il foglio protocollo e gli chiesero: «Li hai fatti tutti e tre?». Sì, rispose. All’orale, uno dei docenti teneva il suo esercizio in mano, quello che non riusciva a fare nessuno, e se lo guardava di sottecchi: «Come mai ha scelto questa soluzione?». «Perché ho avuto un’idea», rispose. Aveva intuito due passaggi veloci. Gli era sempre piaciuta la matematica proprio per questo: perché era come un gioco. Aveva 9 e 10 sulla pagella. Dice che era merito del professore, «che si chiamava Carlo Viberti, che era uno entusiasta, che ti stimolava a fare le cose di testa tua, non importa se fossero le più difficili. Era fantastico studiare. E lui era davvero una leggenda». Due anni dopo andò in pensione. «Non ci sono più insegnanti come lui», dice. Ma non serve cantare il tempo andato. E’ che la scuola è finita, e che cos’è rimasto? La cosa normale, da noi, è che Federico Roggero, quello che chiamavano il genio, quello che aveva 10 in matematica, adesso non ha un lavoro. Non c’è niente di strano. Questo non è il solito articolo sull’eccezione, sulla notizia impossibile, su quello che non capita quasi mai, e invece questa volta sì. E’ una storia banale, così diffusa, che però sentiamo il dovere di raccontare, perché è l’emblema della nostra Italia amara, del nostro familismo un po’ becero e un po’ ignorante, del nostro vuoto da cartone, di un Paese che è fatto così come ci hanno insegnato da bambini, ma non è detto che sia il più bello che c’è, perché è un Paese che non conosce il merito e disprezza il suo valore, perché alla fine è sempre meglio chi è più furbo, chi si arrangia e chi sta galla, magari chi non ha mai studiato e vende tanti libri, chiunque faccia più soldi senza guadagnarseli. Federico Roggero è il simbolo di questo Paese senza classifica, con i suoi 35 anni che slambano via, i capelli corti, la sua barbetta incolta, l’aria robusta di uno sportivo più che di uno studioso di matematica. Un suo amico, Federico Ferrero, che oggi fa il tennis per Eurosport, ricorda che ad Alba c’erano due ragazzi su cui avrebbero puntato tutti, che erano i più bravi a scuola: uno è diventato una grande firma del Corriere della Sera, l’altro è Roggero, che non è diventato niente e non riesce a spiegarsi perché. Suo papà e sua mamma erano due impiegati, oggi sono in pensione. Amicizie importanti non ne ha mai avute. Forse non ha avuto neanche fortuna. Ma non è questo che conta. Se deve raccontare cos’è successo, Federico Roggero ricorda che «già l’anno dopo quando mi iscrissi a ingegneria, l’impatto fu un disastro, perché non era più così divertente studiare, e l’università era come una grande città che ti disperdeva, che ti annullava assieme agli altri, che non stimolava le capacità delle persone. Ti demoralizzava. Io avevo delle grosse aspettative: quando vai molto bene a scuola credi di avere una strada spianata. Invece non è così. La prima cosa che ho capito è che nella vita quelli come il professor Viberti non esistono più». Certo, sarebbe bello come in America, dice lui. Lì, basta esser bravi anche a fare dello sport, «e ti seguono fino alla laurea, non ti lasciano più, e ti aiutano anche per il futuro. Non dico che sia giusto, forse sarà pure esagerato. Ma è meglio che da noi, dove se fai qualcosa bene non importa niente». Se si guarda intorno, in fondo ha ragione Fabio Volo che ha detto di dover ringraziare sua madre che non lo obbligava a studiare. «Anche i miei amici», dice. «Se ci penso è andata così. Quando io facevo i compiti di matematica, loro avevano scelto di non andare più a scuola. Qualcuno di loro si era messo a fare il rappresentante, mentre noi perdevamo tempo a studiare. Adesso guadagnano cinquemila euro netti al mese. Che cosa posso dire? Che avevano ragione loro». Lui aveva trovato un posto in un’impresa edile, era una sorta di consulente. Ma l’azienda aveva grandi progetti, che non si sono realizzati. Così, da un anno Federico non ha un lavoro vero e proprio. Non è che ci sia molta gente che lo cerca per dargli un posto, anche se Alba non è una metropoli, e ci si conosce tutti e ci sarà pure qualcuno che si ricorda che lui era il genio della matematica al liceo Leonardo Cocito. Non è in Italia che si dice «primi a scuola ultimi nella vita»? Solo da noi si dice una cosa così. Federico lo sa bene che ha anche le sue colpe. Ci vuole grinta nella vita, non basta essere bravi. «Io forse non ne ho abbastanza. Mi piacciono le cose tranquille. Se mi sogno una vita futura, mi immagino una bella famiglia, dei figli, dei giorni sereni. Non riesco a pensare alla carriera, o al successo». A guardarsi indietro, però può pensare che non ha agganci («ho imparato che contano più le persone delle qualità. Mi chiedo come sia possibile, che vantaggi ne abbia la società»), può pensare che non ha fatto le domande giuste, che gli è mancata la rabbia. «All’inizio pativo la cosa, il rapporto con gli altri, con la mia famiglia, con la mia ragazza». Adesso non è che si sia rassegnato. Ma vede sua sorellina, che ha 12 anni di meno, e pensa che sia ancora peggio per lei. Perché lui uno come Viberti l’ha trovato, e oggi non esiste più. Perché anche la tv non ti parla, e non ti insegna più niente. E’ come se fossimo un mondo in discesa e in basso non c’è nemmeno un torrente che ti porta via. Oggi, Federico fa delle cose strane per hobby, costruisce delle librerie come se fossero alberi, fa delle lampade con i phon. «Mi ero fatto delle certezze che sono cadute tutte. Però mi dico: non è una sconfitta mia. E’ una sconfitta di questo sistema». Anche la matematica è sparita dalla sua vita. Gli è rimasta solo una cosa: il modo di pensare che aveva quando affrontava un esercizio. La strada da scegliere, l’intuizione. Il problema giusto. Ecco. «Quello me lo tengo. E’ l’unica cosa che non mi può levare nessuno». PIERANGELO SAPEGNO