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 2007  dicembre 27 Giovedì calendario

Quando fu condannato in primo grado, Bruno Contrada disse che - se fosse stato davvero colpevole come ipotizzavano i pm della Procura di Palermo - dieci anni di carcere sarebbero stati una pena irrisoria, perché il reato di cui veniva accusato era talmente infamante da meritare la fucilazione alle spalle

Quando fu condannato in primo grado, Bruno Contrada disse che - se fosse stato davvero colpevole come ipotizzavano i pm della Procura di Palermo - dieci anni di carcere sarebbero stati una pena irrisoria, perché il reato di cui veniva accusato era talmente infamante da meritare la fucilazione alle spalle. Come si addice ai militari che tradiscono. Sono trascorsi dodici anni (15 da quando fu ammanettato e portato a Forte Boccea) da quel giorno - da lui definito disonorevole -, tutti spesi nel disperato tentativo di recuperare l’onore perduto. Oggi l’ex «numero tre» del servizio segreto civile si ritrova nell’identica situazione di allora: la grazia, infatti, non modifica il suo status di condannato per mafia in via definitiva. E questo Bruno Contrada lo sa benissimo, tanto che alla riconoscenza verso il Capo dello Stato per il gesto di clemenza motivato dalle sue cattive condizioni di salute affianca la personale aspirazione a ottenere una revisione del processo. Già, perché Contrada non ha mai accettato il quadro disegnato dai magistrati di Palermo, non può «digerire» quello che lui definisce «il torto» di essere consegnato alla storia come un funzionario infedele. Chi è, dunque, davvero Bruno Contrada? Il congiurato diabolico che sotto gli abiti dell’inquisitore ha nascosto per anni la dedizione infame verso un antistato assassino? Oppure è «lo sbirro» promotore di mille inchieste sulla mafia, il segugio che ha sempre fiutato e scovato il malaffare? Una cosa forse va detta subito: a chi ha vissuto il periodo storico della gestione antimafia di Contrada risulta difficile riconoscere per autentico il ritratto consegnato dai processi. Ed è questo il motivo per cui - al di fuori della cosiddetta verità processuale - non esiste un giudizio unanime sugli addebiti contestatigli. Chi lo ha frequentato e conosciuto non accetta di liquidarlo con un «sì» o con un «no» netti. E spesso il discorso viene chiuso con la tesi accomodante che «se ha fatto qualcosa di male, l’ha fatto non per interesse personale». E’ la tesi dei peccati compiuti per «ragion di Stato» che, però, Contrada ha sempre rifiutato, opponendo la montagna di carte che testimoniano le centinaia di indagini condotte contro boss e picciotti di Cosa nostra. Già, chi è allora Bruno Contrada, ex ufficiale dei Bersaglieri, uomo d’ordine e sbirro per vocazione? Ironia della storia, venne mandato a Palermo dal capo della Polizia, prefetto Angelo Vicari, per reprimere lo strapotere mafioso che vegetava nell’indifferenza generale. Era la seconda metà degli Anni Sessanta e l’eco della strage di Ciaculli aveva avviato la costituzione di una Commissione parlamentare che scavasse dentro i misteri di mafia e politica. Ma le questure non erano attrezzate. Non esistevano le sezioni antimafia: la prima fu istituita da Contrada con mezzi di fortuna e riciclando due vecchi marescialli della «omicidi» particolarmente attrezzati in materia di confidenti. Così, allora, era possibile mandare avanti le inchieste sulla mafia ed è per questo, allora, che non è agevole ricostruire vicende così indietro negli anni con la visuale dell’antimafia di Giovanni Falcone e del pool. Nasceva così la squadra mobile che sarebbe diventata importante per i successi conseguiti. La squadra mobile di Contrada e Boris Giuliano, il vice che sarebbe stato ucciso nel 1979. Che strana fine è toccata a quella squadra: Boris assassinato, Contrada in carcere, come anche un altro - Ignazio D’Antone, poi divenuto capo al posto di Contrada e Giuliano - oggi anch’egli rinchiuso nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere, sotto lo stesso peso che ha travolto «Bruno». Ma gli uffici giudiziari di Palermo - si sa - hanno una caratteristica: o tolgono la vita o aprono la strada per carriere fulminanti. Nel caso dello «sbirro Bruno» i successi non sono serviti a salvarlo. Il rapporto sulla scomparsa di De Mauro, sull’assassinio del procuratore Scaglione, sulla prima guerra di mafia, sulla mafia americana degli Spatola e Inzerillo, su Sindona e i suoi amici. E le indagini sull’assassinio del colonnello dei carabinieri e dell’amico Boris Giuliano. Tutto inutile, Contrada era diventato il traditore: troppi collaboratori di giustizia lo avevano disegnato in mille modi. E tutti cupi. Non sono servite le centinaia di testimonianze favorevoli di ufficiali dei carabinieri, di funzionari dello Stato, di ex capi della Polizia. Contro di lui hanno giocato piccole vanità: l’eccesso di galanteria verso le belle donne, una vecchia iscrizione alla Loggia dei Cavalieri di Malta (una lobby amata dai potenti e odiata da tutti gli altri, a Palermo) e le gite in barca con un medico palermitano che curava il boss mafioso Rosario Riccobono, al processo indicato come l’uomo per il quale Contrada aveva tradito le istituzioni. Ma la verità forse è che lo sbirro infedele (meglio se due, con D’Antone) serve a tenere in piedi il ragionevole sospetto che mafia e politica si servivano anche delle istituzioni. Oggi, però, non si parla più del processo. Si sta parlando di grazia, che è altra cosa. E forse, tirando le somme di una storia che affonda le radici nel passato remoto, non è sbagliato dire che concedere la grazia a Contrada sia giusto. Ha scontato tre anni di carcerazione preventiva e otto mesi di carcere militare: è stato condannato ma anche assolto da diverse corti, è ammalato ed è avanti negli anni. Obiettare, poi, che la grazia a Contrada possa aprire la strada a gesti di clemenza anche per altri malati (pensando al ricovero di Totò Riina) non è proprio pertinente. Se non altro per non offendere la sensibilità del Capo dello Stato. Ministro Antonio Di Pietro lei è favorevole a concedere la grazia a Bruno Contrada? «Premesso che è un suo diritto, non nascondo che sono perplesso. Per la tempistica: muoversi alla Vigilia di Natale significa mirare ai cuori. Ma si sa, gli avvocati fanno il loro mestiere». Ha sentito il grido di dolore di tanti familiari delle vittime? «Nel chiedere la grazia, si riconosce sostanzialmente il proprio debito con la giustizia. E’ una supplica. Ma se il dottor Bruno Contrada si dichiara innocente, allora è improprio ricorrere alla grazia. La via maestra è la richiesta della revisone del processo per dimostrare la propria innocenza. E’ strumentale chiedere la grazia se non c’è stato un ravvedimento operoso». Passo che qui non è avvenuto. «Appunto. Guardi, Contrada sta a Sofri come la mafia sta al terrorismo». / 1. Un giovanissimo Bruno Contrada sotto le armi, ufficiale dei bersaglieri. 2. Il superpoliziotto, nel 1978 capo della squadra mobile di Palermo, qui fotografato insieme a Boris Giuliano (a destra) suo vice. Giuliano lo sostituì nel 1979, ma poco dopo (il 21 luglio) venne ucciso dalla mafia. 3. Contrada con la moglie Adriana.