Sandro Viola, la Repubblica 27/12/07, 27 dicembre 2007
In Anglomania, un aureo libretto di qualche anno fa, Ian Buruma analizzò e descrisse il «love affair» che alcune borghesie europee, l´italiana compresa, avevano intrecciato con l´Inghilterra tra la fine dell´Otto e la metà del Novecento
In Anglomania, un aureo libretto di qualche anno fa, Ian Buruma analizzò e descrisse il «love affair» che alcune borghesie europee, l´italiana compresa, avevano intrecciato con l´Inghilterra tra la fine dell´Otto e la metà del Novecento. Quelle borghesie avevano visto nella società inglese, e soprattutto nei suoi campioni - i celebri «gentlemen»-, il culmine d´ogni civile comportamento reperibile nel mondo d´allora. I vantaggi che la formazione empiristica aveva recato alla mentalità degli inglesi, la loro insofferenza per gli eccessi burocratici che affliggevano invece i paesi in cui vivevano gli anglomani, l´assenza di pomposità che risultava dall´uso sistematico dell´«understatement», e poi le buone maniere, l´«habeas corpus», la tolleranza, e quelle «fiabesche public schools con gli alunni in cilindro tra le architetture neogotiche e il verde della campagna inglese». Nel suo Milord - Avventure dell´anglomania italiana (Neri Pozza, pagg. 216, euro 18), Edgardo Bartoli ha ridisegnato, allargandolo, il campo d´indagine. Perché se da un lato il libro descrive, come indica il titolo, la passione per l´Inghilterra che pervase la borghesia italiana sino a qualche decennio fa, dall´altro lato tratteggia l´italomania che in alcune fasi dello stesso periodo, tra la fine dell´Ottocento e la vigilia della Seconda guerra mondiale, fu un connotato parecchio diffuso nell´aristocrazia e nella borghesia inglesi. Il fatto è, tuttavia, che le due reciproche attrazioni non dettero luogo ad un idillio costante, senza soprassalti e rotture, bensì ad un accidentato va e vieni di simpatie e antipatie, d´incensamenti e disprezzi. Milord è la storia di questa singolare altalena del rapporto tra Italia e Inghilterra, dei suoi alti e bassi, e inizia in una delle fasi calanti della vicenda, verso la fine della Seconda guerra mondiale, con un episodio esilarante: l´arrivo a Londra di Niccolò Carandini, primo ambasciatore dell´Italia post-fascista presso la Corte di San Giacomo. La fase delle relazioni tra i due paesi era una delle peggiori, perché gli inglesi non avevano perdonato all´Italia l´entrata in guerra a fianco della Germania. I governi di Londra e una parte dell´«upper class» s´erano mostrate tra gli anni Venti e Trenta, non bisogna dimenticarlo, piuttosto compiacenti con il fascismo. Mussolini piaceva per la foga antibolscevica, e per aver provato ad estirpare qualcuno dei vecchi vizi italiani, il disordine, la sporcizia delle strade, e soprattutto i ritardi dei treni Napoli-Sorrento, Roma-Firenze e Milano-Stresa, i più frequentati dai turisti britannici. L´Inghilterra aveva perciò fatto di tutto (a parte l´impuntatura sulla guerra in Abissinia) per tenere gli italiani fuori dal conflitto mondiale. A tal fine sopportando pazientemente la propaganda fascista che descriveva la Gran Bretagna come una specie di fantasma del passato, lo stomaco oppresso dai «cinque pasti», la classe dirigente immersa nelle gioie del giardinaggio: insomma, un paese ormai imbelle. Ma né le simpatie per il Duce, né la signorile sopportazione della sbracata propaganda fascista, erano riuscite ad evitare l´entrata dell´Italia in guerra. Del tutto comprensibili erano quindi, dopo la nostra disfatta militare, l´atteggiamento punitivo dell´Inghilterra nei confronti degli italiani, e i toni bruschi, altezzosi con cui essi venivano trattati. Ma quel 20 novembre del 1944, all´aeroporto di Londra non sbarcò un italiano qualsiasi. Sbarcò una specie di Lord, un gentiluomo alto di statura, d´aspetto attraente, e soprattutto abbigliato come un visconte appena uscito dalle botteghe dei grandi sarti di Savile Row. Il conte Niccolò Carandini, appunto, uno di quegli italiani che essendosi ispirati sin da giovanissimi allo «stile inglese», erano giunti a sembrare una replica, un doppione del «gentleman», quella particolare specie sociale che André Malraux chiamava «la grande creation de l´homme». Quel giorno, il funzionario incaricato dal Foreign Office di ricevere Carandini all´aeroporto (funzionario di grado inferiore, così da sottolineare la scarsa considerazione per l´ospite italiano) non credeva ai suoi occhi. Gli anni del fascismo avevano proiettato in Europa una ben diversa immagine del «tipo italico»: il nerboruto Mussolini, il moschettiere Balbo, il gagà Ciano. E perciò il funzionario del Foreign Office si trovò con le idee confuse. Avrebbe dovuto mostrare distacco e freddezza, ma di fronte a quella specie di Lord pensò bene di farsi cortese, rispettoso. E lo stesso accadde nei giorni e mesi seguenti, quando la figura e la signorilità di Carandini servirono a rompere il ghiaccio d´uno dei periodi più sfortunati del rapporto tra Italia e Inghilterra. Lo «stile inglese» del conte Carandini aveva da noi in quella metà dei Quaranta, e l´avrebbe avuta per un trentennio ancora, una coorte di seguaci. Al Nord, al Centro, ma soprattutto da Napoli in giù. Bartoli descrive il fenomeno con garbo e appena un´ombra di ironia, anche se esso ebbe aspetti francamente comici. La passione dell´Inghilterra non comportava infatti, per quegli anglomani, alcuna vera conoscenza della storia delle Isole Britanniche, delle loro istituzioni, costumi politici e «valori». Era tanto fervida quanto circoscritta. E circoscritta, per dirla con l´espressione spagnola, al «jorte inglés»: cioè a dire al taglio inglese, dunque all´abbigliamento. Nella provincia italiana importava poco, anzi niente, come funzionassero la Camera dei comuni o l´Old Bailey. L´attenzione degli anglomani, le loro interminabili discussioni al Circolo o al caffè, riguardavano le stoffe, le scarpe, i copricapo, gli ombrelli, le cravatte e i pullover degli inglesi. «L´amore per l´Inghilterra», scrive infatti Bartoli, «divampava con la febbre del vestiario. Era una forma di feticismo per il "made in England" che faceva apparire preziosi i "tartan" scozzesi e le cravatte "regimental", le magliette estive di "cotone delle isole" marcate Allen&Solly e Beale&Inman, i cappelli di Lock, le mitiche scarpe di Lobb, gli ombrelli di Brigg». Ma Milord non è solo la rievocazione di quello scimmiottamento del «taglio inglese» che dilagò nella borghesia italiana. Come s´è detto, esso comprende infatti il contro altare della nostra anglomania, vale a dire l´attrazione degli inglesi per l´Italia. Ecco la Firenze anglo-becera con le farmacie, librerie e «nannies» inglesi, la Venezia di Byron e Baron Corvo, la Capri di Compton Mackenzie e Norman Douglas. Senza dimenticare il folto e influente gruppo dei filo-mussoliniani degli anni Trenta, riuniti attorno a Lord e Lady Astor nella loro famosa e fastosa residenza di Cliveden. Trascorsi i decenni, il fenomeno della nostra anglomania è man mano degenerato. Folle di italiani sciamano adesso per le vie di Londra, officiando - scrive Bartoli - «una anglofilia di massa a carattere prevalentemente dopolavoristico». L´amore per l´Inghilterra s´è fatto interclassista, il moltiplicarsi e involgarirsi delle merci ha distolto l´attenzione da quelli che furono i miracoli dell´industria e dell´artigianato inglesi. E la conseguenza è che a Parma o a Bari nessuno delira più alla vista d´una pipa Dunhill, d´un ombrello di Brigg, d´una cravatta di New&Lingwood.