Anna Chimenti, Corriere della Sera 27/12/07, 27 dicembre 2007
Con la promulgazione, il 27 dicembre 1947, giusto sessant’anni fa, della Costituzione italiana, anche il referendum, oggetto di una disputa assai accesa in Assemblea costituente, entrava formalmente a farne parte, anche se per 22 anni sarebbe rimasto nel cassetto
Con la promulgazione, il 27 dicembre 1947, giusto sessant’anni fa, della Costituzione italiana, anche il referendum, oggetto di una disputa assai accesa in Assemblea costituente, entrava formalmente a farne parte, anche se per 22 anni sarebbe rimasto nel cassetto. Oggi che un referendum, di nuovo, si prepara a incidere sulle sorti del governo e forse dell’intera legislatura, in attesa che la Corte costituzionale si pronunci, è interessante andare a rileggersi il dibattito tra i padri fondatori e scoprire che i loro timori e cautele erano tutt’altro che infondati. La scelta non fu facile. Era complicato introdurre un istituto di democrazia diretta in un sistema parlamentare come quello italiano. Inoltre, mancavano riferimenti che consentissero ai costituenti di valutare preventivamente gli effetti delle loro decisioni. Un largo uso del referendum era previsto dalla Costituzione di Weimar, ma la debolezza e il tragico approdo di quell’esperienza ne facevano un precedente di cui diffidare. Negli Stati Uniti non esisteva l’istituto dello scioglimento delle Camere ed era quindi più avvertita l’esigenza di garantire al popolo un intervento diretto al di fuori delle scadenze ordinarie. Ciò accadeva anche in Svizzera dove, tra l’altro, le limitate dimensioni del Paese rendevano più praticabili esperienze di democrazia diretta. Fin dalle prime battute in Assemblea costituente emersero diversi schieramenti. Al referendum si accostava senza entusiasmo gran parte della sinistra. I comunisti lo ammettevano in linea teorica come «strumento di democrazia» (Grieco), come «forma di controllo popolare» (Terracini), come «espressione di un diritto popolare», ma con cautele (Laconi). Togliatti, teorico dell’immaturità delle masse, finì per diventare il capofila degli oppositori. Via via ne furono sempre meno convinti i liberali, anche se Einaudi si schierò in difesa del referendum. A sostenerlo apertamente rimasero i cattolici, che lo avevano inserito nel primo programma del Partito popolare. E i repubblicani, perché la Repubblica era nata da un referendum. Per dare un’idea delle riserve che emergevano, si pensi che a un certo punto fu proposto dal cattolico Foschini e dal repubblicano Perassi di sottoporre le richieste di referendum al pagamento di una cauzione. In Assemblea, la discussione partì dalla proposta Mortati, che conteneva quasi tutti i tipi di referendum, a partire da due ipotesi di consultazioni promosse dal capo dello Stato, con atto controfirmato dal presidente del Consiglio, per sospendere una legge approvata dalle Camere o per dar corso a un disegno di legge del governo respinto dal Parlamento: il popolo, in questi casi, sarebbe diventato arbitro di dissidi tra organi costituzionali. E non stupisce che, come ricorda Meuccio Ruini, rispetto a queste proposte «ci fu una generale levata di scudi ». Analoga fine fece l’ipotesi di referendum propositivo, a cui si oppose prima di tutti Umberto Terracini: i costituenti ritennero infatti che in questo modo il corpo elettorale avrebbe potuto incidere notevolmente nella determinazione dell’indirizzo politico del Paese, alterando gli equilibri interni della forma di governo. Ma il compito di una demolizione pressoché totale del referendum se lo assunse Togliatti. Prima contestando il numero di 500 mila firme, a suo parere troppo basso, richiesto per il referendum di iniziativa popolare. Poi protestando contro l’ipotesi di referendum sospensivo di una legge, perché «con tale sistema un partito fortemente riorganizzato (ed è chiaro che Togliatti non pensava al suo) avrebbe la facoltà di sospendere la vita di tutte le assemblee, cioè la vita costituzionale del Paese». Infine, aprendo uno spiraglio a un’introduzione limitata, caratterizzata da «episodicità » ed «eccezionalità» dell’istituto. Motivo ricorrente nella politica comunista che porterà il Pci, negli anni Settanta, dopo il referendum sul divorzio, ad avanzare una serie di proposte correttive e limitative, per evitare – sono parole di Berlinguer – che il referendum diventi «strumento plebiscitario in contrapposizione alla democrazia parlamentare e rappresentativa». La questione dei limiti diventò così terreno per un’intesa. L’accordo tacito, voluto da Einaudi e da un giovanissimo, ma già allora abile mediatore, Aldo Moro, fu di varare il solo referendum abrogativo, quello a minor tasso di rischio, imporgli confini molto ridotti e creare le condizioni per cui in pratica non si dovesse ricorrervi mai. E sarà Einaudi a vincere le ultime resistenze di Togliatti, con un’argomentazione, vista oggi, quasi ingenua. «Il referendum – dirà il futuro capo dello Stato – comporta ingenti spese e nessun partito vuole sprecare denaro (…), né preoccuparsi di odiosità presso gli elettori, disturbandoli continuamente per fare un referendum». Quanto simili previsioni dovessero rivelarsi avventate, lo si vedrà ventidue anni dopo, nel 1970: quando lo scambio tra l’approvazione della legge sul divorzio, subita da una Dc sotto pressione del Vaticano contrario allo scioglimento legale del matrimonio, e l’introduzione effettiva, attraverso una legge di attuazione, della consultazione referendaria che doveva servire a cancellare il divorzio, darà il via a una vera valanga di referendum ad opera dei radicali.