Maria Chiara Bonazzi, La Stampa 21/12/07, 21 dicembre 2007
LONDRA
la sovrana più longeva tra i quaranta monarchi della storia britannica. Se ha ereditato tutti i geni di sua madre, non è escluso che Elisabetta tenga duro sul trono per altri nove anni e batta la regina Vittoria anche sul fronte della durata del regno, in barba alle note aspirazioni di Carlo. Ieri, alle cinque, il primo record se l’è guadagnato lei, superando gli 81 anni e 241 giorni della sua trisnonna. Fra i tributi fioccati in serata, nessuno aveva però ancora menzionato lo sgretolamento definitivo dell’impero, avvenuto proprio da quando Elisabetta porta la corona.
Qualcuno aveva evidentemente timore di rovinarle la festa, ma la regina è fatta di pasta ben più robusta. Certo, resta da vedere se sarebbe capace di fare buon viso a un’eventuale svolta repubblicana dell’Australia, ma non ha mai manifestato niente di lontanamente paragonabile al rancoroso rimpianto per la perdita delle colonie espresso in altri tempi dal suo antenato Giorgio III, terzo anche per longevità nella storia britannica e incapace di rassegnarsi alla perdita dell’America. Elisabetta ha anzi sempre dimostrato una genuina passione per il Commonwealth, e nel contempo ha dimostrato praticità e leggerezza di tocco nell’adattarsi al fatto che il suo è diventato un ruolo più che mai cerimoniale.
Forse proprio per questo ieri sera, nel sciorinare fatti e aneddoti della sua vita, i media citavano in tono deferenziale che la regina «ha fatto la prima passeggiata nel 1970 a fianco del duca di Edimburgo per incontrare quanta più gente possibile»; «ha presenziato a 34 serate di gala della Royal Variety Performance»; «ha assistito alla sua prima partita di calcio nel 1953»; «ha posato per 139 ritratti ufficiali»; «ha usato per la prima volta la metropolitana nel 1939 con la sorella Margaret e della governante»; «ha avuto 30 cani corgi, a partire da Susan, suo regalo di compleanno nel 1944»; e «possiede la più grande e preziosa collezione privata di arte al mondo».
A leggere queste statistiche, gli sparuti repubblicani del regno si chiedono perché sono ancora in quattro gatti. Fatto sta che la deferenza ha finora sempre prevalso, anche se è discutibile se la gente nutra per la regina vero amore o non piuttosto un solido, ostinato rispetto. D’altronde, se per gli ultimi «garden party» di Elisabetta è finora gaiamente passato oltre un milione di persone, è segno che non c’è un soggetto politico in grado di sostenere che l’istituzione monarchica britannica sia diventata per lo più irrilevante. L’unico, ingovernabile fattore X che ha fatto irrompere un’inedita folata di giacobinismo attraverso le vetrate di Buckingham Palace è stata la morte di Diana.
I tre divorzi dei suoi quattro figli, naturalmente, non hanno aiutato l’immagine della monarchia, così dipendente dalla rispettabilità della famiglia. Ah, i divorzi, specialmente quelli rispettivi di Carlo e Andrea scaturiti dall’annus horribilis 1992, durante il quale, per di più, andò arrosto il castello di Windsor. Quei divorzi, preceduti dalla pubblicazione delle telefonate di Diana con l’amante e dell’erede al trono con Camilla, nonché delle foto di Sarah Ferguson che si faceva succhiare l’alluce dal suo ganzo del momento, gettarono Elisabetta nella costernazione più nera.
Come disse Andrew Morton a «La Stampa» in quello stesso 1992 in cui aveva raccontato l’infelicità e i tentativi di suicidio di Diana, i tabloid inglesi avevano sempre trattato la monarchia come «il più antico teatro di strada». E allora la stampa popolare ebbe davvero un momento campale, in cui ferocia e deferenza verso la famiglia reale si intrecciarono e divennero indistinguibili: e forse Elisabetta ha imparato allora che questo instabile miscuglio così deve restare, apparentemente esplosivo ma alla fin fine innocuo, per garantire la sopravvivenza della monarchia stessa.
Com’era cambiata l’aria dall’epoca che aveva preceduto la sua incoronazione nel 1953. Allora la maggior parte della gente non aveva ritegno ad esprimere l’affetto di cui scrisse in privato l’impareggiabile contralto (e monarchica di ferro) Kathleen Ferrier, che in una lettera, usando un vezzeggiativo popolare del profondo nord inglese, aveva raccontato il loro incontro: «Elisabetta? E’ un dolce tesoruccio».
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