Federico Rampini, la Repubblica 21/12/07, 21 dicembre 2007
I cinesi entrano in Morgan Stanley
dal nostro corrispondente «Non mi preoccupano gli investimenti stranieri in America. Reagire con il protezionismo sarebbe un errore». Ieri è dovuto intervenire George Bush per rassicurare gli americani dopo il colpo della China Investment Corporation: il fondo sovrano della Repubblica popolare con 5 miliardi di dollari si è comprato il 10% della banca Morgan Stanley. L´America scopre di essere la preda di una invasione senza precedenti. L´operazione che Bush avalla in nome del liberismo è una nazionalizzazione strisciante: in un´istituzione storica di Wall Street entrano in forze i capitali di un governo straniero. Non uno staterello amico come Abu Dhabi o Singapore ma la superpotenza rivale dell´America, la Cina comunista, il più grande regime autoritario dei nostri tempi. Bush sdrammatizza ma le sue parole possono suonare come una resa. Pochi giorni prima di entrare in Morgan Stanley proprio il presidente della China Investment Corporation aveva lanciato un avvertimento minaccioso: «I governi occidentali non usino pretesti di sicurezza nazionale per fare del protezionismo o li boicotteremo». Chi cerchi di frenare il rullo compressore degli investimenti cinesi ne pagherà le conseguenze. Non se lo può permettere l´America. Il fondo sovrano presieduto da Lou Jiwei è l´emanazione della banca centrale di Pechino, il più ricco creditore di Washington. A furia di deficit commerciali gli Stati Uniti hanno consentito alla Repubblica popolare di accumulare 1.500 miliardi di dollari di riserve valutarie. 800 di quei miliardi sono investiti in titoli del Tesoro Usa: il finanziamento del debito pubblico americano dipende dagli eredi di Mao Zedong. Con questa ricchezza la Cina finanzia il suo espansionismo mondiale. Secondo Li Yang, direttore dell´Accademia cinese delle scienze sociali, «il fondo sovrano gestirà la strategia delle risorse cinesi su scala globale». La cronistoria dell´assalto alle roccaforti del capitalismo Usa è recentissima. Solo nel 2001 Pechino fu ammessa nel Wto. Le multinazionali occidentali celebravano l´apertura del mercato più vasto del mondo. Le prime sorprese arrivano nel 2004. La Tlc di Shanghai si compra la telefonìa mobile della francese Alcatel e la storica marca americana di televisori Rca. Il 7 dicembre di quell´anno l´azienda informatica Lenovo, fondata da un ufficiale dell´Esercito di Liberazione popolare, rileva il settore personal computer della Ibm. Diecimila dipendenti della Ibm, che fu il simbolo della supremazia tecnologica americana, passano sotto un padrone cinese. L´anno seguente Washington si ribella quando la China National Offshore Oil Corporation tenta di scalare la compagnia petrolifera californiana Unocal. Arriva il 2007 e la crisi dei mutui insolventi mette in ginocchio il sistema bancario: la Repubblica popolare coglie l´opportunità per una serie di blitz nei templi della finanza occidentale. In rapida successione il fondo d´investimento Blackstone (maggio), la banca d´affari Bear Stearns e l´inglese Barclays (ottobre), la Morgan Stanley (dicembre) devono accogliere come «salvatori» degli azionisti di Stato cinesi. Riprende anche l´assedio alle tecnologie avanzate. Il colosso delle telecomunicazioni Huawei - fondato anche quello da un militare - insidia la società 3Com: Washington sta passando l´operazione ai raggi X perché la 3Com fornisce sofisticati sistemi di spionaggio elettronico al Pentagono e alla Cia. Non è solo nel cuore del capitalismo Usa che è scattata la penetrazione cinese. L´espansione si dispiega su tutti i continenti. Già alla fine del 2006 il ministero del Commercio di Pechino censiva diecimila grandi imprese presenti con investimenti diretti in 160 paesi. Uno dei criteri delle acquisizioni all´estero è accaparrarsi le risorse naturali, dall´energia ai minerali, dalle foreste alle derrate agricole. Canada e Australia, Brasile e Indonesia, tutti i grandi produttori di materie prime sono invasi da investitori cinesi. Emerge una visione geostrategica, la Repubblica popolare insidia zone d´influenza che appartenevano all´Occidente. Il Quotidiano del Popolo descrive «l´inevitabile declino della presenza americana in Medio Oriente», ed ecco che il presidente Hu Jintao firma in tempi record «trattati di protezione degli investimenti cinesi» con 16 governi dei paesi arabi. 352 imprese cinesi sono già presenti in Egitto, uno degli alleati più fedeli di Washington. Gli investimenti raggiungono l´Arabia saudita, Oman, gli Emirati arabi uniti, l´Algeria. La compagnia petrolifera Sinopec ottiene dall´Iran lo sfruttamento dei grandi giacimenti di Yadavaran: 18,3 miliardi di barili di petrolio di riserve. In Asia centrale Pechino allungare i tentacoli nei luoghi più inattesi. Il generale Musharraf sta in piedi col sostegno di Bush ma accoglie 100 imprese cinesi in «zone riservate» e concede un accesso privilegiato alle sue miniere di ferro, ai progetti di infrastrutture energetiche e di trasporto. Nell´Afghanistan dove combatte la coalizione Nato il China Metallurgical Group si aggiudica la più vasta miniera di rame. In nessun´altra parte del mondo il cambiamento dei rapporti di forze è rapido quanto in Africa. Novembre 2006 è il passaggio cruciale: Hu Jintao accoglie in pompa magna a Pechino i capi di Stato di tutti i paesi africani. Offre capitali, infrastrutture, e la solida garanzia che non chiederà riforme democratiche né diritti umani. Nel continente nero si logorano le antiche relazioni con le ex-potenze coloniali europee, soppiantate da un regime che chiude gli occhi sul Darfur e sugli abusi di Mugabe. 750.000 manager, quadri e tecnici delle imprese cinesi si installano stabilmente in Africa, la penetrazione è fulminea. La maggiore banca del Sudafrica, con filiali in 18 paesi del continente, cede il 20% del capitale alla Industrial and Commercial Bank of China. Le ripercussioni politiche sono immediate: all´ultimo vertice euro-africano, l´Unione europea non osa proibire l´accesso a Mugabe per paura che l´intero continente solidarizzi con il dittatore e scivoli per sempre nell´orbita di Pechino. Nell´espansionismo cinese c´è l´impronta di una nuova classe dirigente, tecnocratica e pragmatica. Il capo dello Stato e del partito comunista Hu Jintao e il suo premier Wen Jiabao, sessantenni, sono ingegneri. Per la successione allevano una nuova generazione dove spiccano personaggi come il delfino emergente Li Keqiang, con Ph. D. di Economia all´università di Pechino, un ministro degli Esteri laureato alla London School of Economics, un ministro della Ricerca scientifica ex dirigente della Audi in Germania. Poi ci sono i cervelli finanziari che gestiscono la macchina da guerra del fondo sovrano. Zhou Xiaochuan governa la banca centrale più ricca del pianeta. Il suo centro studi, dichiara, «è al servizio delle imprese per studiare le opportunità di business in tutte le regioni del mondo». Lou Jiwei, presidente del fondo sovrano, sta reclutando i migliori cervelli cinesi che hanno studiato in America e hanno lavorato nelle merchant bank di Wall Street. E´ una nomenklatura comunista passata attraverso mutazioni genetiche, un po´ Opus Dei e un po´ associazione degli Alumni di Harvard e Stanford. L´impronta ideologica non è scomparsa. Yin Mingshan, fondatore della casa automobilistica Lifan, spiega la sua strategia che consiste nel penetrare nei paesi emergenti primare di arrivare ai mercati occidentali: «Mao ci ha insegnato che se puoi vincere devi combattere, se non puoi vincere devi fuggire. Io alleno la mia armata nei mercati più piccoli, quando saremo pronti passeremo alla battaglia successiva». Sheila Melvin, sinologa e consulente di management, ha appena pubblicato «The Little Red Book of China Business»: è un´analisi delle tattiche maoiste apprese nel Libretto Rosso e applicate quotidianamente dai leader dell´economia cinese. E´ la differenza decisiva con un´altra epoca in cui il capitalismo americano fu sotto assedio. Negli anni Ottanta era il Giappone la potenza asiatica all´apice della competitività. I suoi colossi dominavano le classifiche delle Borse mondiali, irrompevano a Wall Street, compravano il Rockefeller Center e case cinematografiche di Hollywood. E´ scoppiata la bolla speculativa della Borsa di Tokyo e lo spettro della colonizzazione nipponica si è dissolto. Ma il Giappone non ha mai rappresentato una sfida totale alla leadership Usa: la sua popolazione è un terzo di quella americana; all´apice dell´efficienza economica è rimasto un nano politico; è un vassallo militare di Washington. La Cina ha il quadruplo della popolazione americana, una forza militare in aumento, una classe dirigente che rigetta i valori delle liberaldemocrazie occidentali. E per duemila anni è vissuta nella certezza di essere il vero centro del mondo.