Corriere della Sera 20/12/2007, pag.8 Mario Pappagallo - Alessia Rastelli, 20 dicembre 2007
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Corriere della Sera 20 dicembre 2007.
Mario Pappagallo
E Venezia è leader in Europa. Rien ne va plus. Il gioco d’azzardo è servito. La pallina gira con il classico rumore della roulette e sceglie il 26 nero. La paletta del croupier come una bacchetta magica fa sparire dal tavolo verde tutte le fiches perdenti e subito dopo rifila un castelletto di «crediti» colorati all’unico vincitore. Unica. Una signora in stola. Gioielli firmati. Sui 60, italiana. Accanto, una smorfia sul volto di un signore sui 50. Aveva puntato sul 19. Annota il numero su un foglietto, allungando la lista dei suoi calcoli statistici. E’ un sistemista. Matematico, ma senza fortuna.
Giocatori abituali? «Vengono 4-5 volte all’anno», risponde la croupier ritirando la mancia della signora. Fanno parte di quell’1,1 per cento di giocatori «ricchi» che al Casinò di Venezia portano il 22% degli incassi. Roulette e Chemin de fer in testa. In media giocano 50 mila euro all’anno a testa. Sono i clienti vip. Poi ci sono i cosiddetti abituali (4-6 volte all’anno), un 10 per cento circa, frequentano soprattutto le slot. L’89 per cento di chi varca la soglia di uno dei quattro santuari del gioco d’azzardo italiani lo fa una, due volte all’anno. Clienti sporadici. Tra gli stranieri non turisti, svettano i cinesi «italiani». Poi slavi di confine.
Il gioco d’azzardo è vietato in Italia, ma non nelle «isole» autorizzate: Sanremo, Campione, Saint-Vincent e Venezia, appunto. La vera «Las Vegas d’Europa», nel Paese dei Casinò vietati. Francia, Spagna, Olanda, Slovenia... Tutti distanti dai 215 milioni di euro all’anno di incasso di Ca’ Vendramin e Ca’ Noghera (frazione di Mestre, sede di terra della Serenissima dell’azzardo di Stato).
Cinquecento milioni di euro è l’incasso italiano dei quattro santuari aderenti alla Federgioco. Soldi che non vanno all’estero: tra gli anni 20 e 30 vennero autorizzate queste sedi perché al confine con Paesi dove i Casinò attiravano i giocatori italiani, e quindi milioni e milioni di vecchie lire. Eccezioni all’azzardo confermate poi dalla Repubblica.
Presidente della Federgioco e di Ca’ Vendramin (al gruppo veneziano fa capo anche il Casinò di Malta) è l’avvocato Mauro Pizzigati. «La prossima estate riapriremo anche la sede del Lido», annuncia. Il Leone d’oro del cinema non può non avere un contorno di slot e tavoli verdi da clienti vip.
Il periodo migliore per il gioco sono i weekend invernali e le feste comandate. In particolare Natale, Capodanno e Carnevale. Due milioni e duecentomila frequentatori l’obiettivo veneto, il 10 per cento dei 20-22 milioni di turisti che ogni anno visitano il gioiello lagunare. Nel 2006 sono stati 1.250.000. La metà dei 2.300.000 frequentatori dei quattro casinò italiani. Una minima fetta dei 30 milioni di giocatori (dalla tombola al gratta e vinci, dal lotto alle slot dei bar) che fanno girare ogni anno quasi 33 miliardi di euro nelle casse di Stato e gestori. Un mercato in continua crescita, nonostante le tasche sempre più asfittiche delle famiglie italiane: da poco più di 14 miliardi nel 2001, ai 27 miliardi e mezzo nel 2005, ai 33 con nove zeri del 2006. «Stessa tendenza nei casinò», dice Pizzigati. Anzi, nel 2007 sono aumentati i clienti vip. Quelli che giocano più soldi. In crescita anche gli «schiavi» dell’azzardo, sono 700 mila lungo l’intera penisola. Malati del gioco. Rari (l’11%) nei supercontrollati Casinò: 70-90 gli «inibiti d’ufficio» nel corso del 2006, 40-50 a Venezia. «La nostra filosofia non è quella di rovinare i clienti», sbotta il presidente di Federgioco. E anche i suicidi da tavolo verde non hanno più il romanticismo dei giocatori della letteratura russa, oggi sono «malati» distrutti dai giochi virtuali (veri solo per quanto riguarda i soldi) su Internet o al bar. Soprattutto i giochi d’azzardo online stanno dilagando, senza possibilità di reali controlli.
«Il nostro personale è addestrato a intercettare i compulsivi del gioco – spiega Pizzigati – e, dopo averli interdetti dal frequentare il Casinò, li inviamo al Sert della Asl di Venezia». Ossia? «Siamo l’unico Casinò al mondo che ha una convenzione per il recupero dei gioco-dipendenti. Diamo alla Asl 300 mila euro all’anno per questa attività. I malati intercettati vengono curati con farmaci e psicoterapie di gruppo ». I risultati? Il 92% guarisce.
Croupier addestrati, ma anche in agitazione. Di poche settimane fa uno sciopero, criticato anche dal sindaco Cacciari. Agitazioni a parte, qual è l’identikit dell’azzardo- dipendente? «Il gioco è di solito un momento di aggregazione e convivialità. Il "malato", invece, sta sempre solo, è nervoso e irascibile. Si allontana spesso per fumare o bere. E’ più che abituale come frequenze. Noi abbiamo un sofisticatissimo sistema di sorveglianza: telecamere e foto all’accesso che in ogni momento un dipendente può vedere e controllare. Per esempio alla cassa il ticket della vincita passato al lettore elettronico fa vedere anche la foto di chi all’ingresso si è registrato con quel nome». Tutto ciò solo per i gioco-dipendenti? «No – risponde Pizzigati ”. Soprattutto per la sicurezza, ma anche per i riciclatori. Cambiano molti soldi e giocano poco o nulla. Ne abbiamo segnalati quest’anno 4-5 alle autorità. Arrestati ».
Bene. Ma, in pratica, chi vince veramente al Casinò è chi lo gestisce? «Non so. I numeri sono chiari: per chi gioca ai tavoli la restituzione è del 65-70% dei soldi cambiati. Alle slot il restituito è superiore al 90%». Il record di vincita: 600 mila euro di un professionista veneto. Ma il brindisi l’ha meritato una coppia in viaggio di nozze che ha vinto 135.000 euro giocandone uno. Impressiona il Jackpot delle slot: un milione e mezzo.
Con oltre 650 dipendenti, 108 milioni di euro che ogni anno vanno nelle casse del Comune di Venezia e sei milioni per sponsorizzare sport e iniziative culturali, sembra quasi che ci rimettiate... «Assolutamente no. Ma per noi l’obiettivo è che ogni visitatore paghi in media 80 euro, anche se solo tra ristorante e gadget. Già solo così si arriva a oltre 200 milioni». Appunto l’incasso da primi in Europa del gioiello Ca’ Vendramin: il più importante palazzo rinascimentale della Serenissima, datato fine ’400.
E mentre tutti hanno paura dei cinesi, nei Casinò italiani sono i benvenuti. In Cina il gioco d’azzardo è ultravietato, mentre loro sono grandi giocatori (effetto del proibizionismo). Venezia ne approfitta: nella città di Marco Polo hanno un loro Capodanno, oltre all’elezione di Miss Cina in Italia. Tutto organizzato dal Casinò.
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Corriere della Sera 20/12/2007
Alessia Rastelli
Ma per 700 mila scommettitori serve il medico, non il croupier. MILANO – Ci sono quelli che lo fanno per stare in compagnia e divertirsi. La letteratura scientifica li chiama «giocatori sociali adeguati» e non c’è da preoccuparsi se trascorrono il tempo libero tra scommesse e casinò. Ma ci sono anche quelli su cui il gioco d’azzardo ha un effetto così eccitante, o a tal punto calmante, che non possono più farne a meno. Sono detti «giocatori patologici per azione o per fuga», perché per loro la sfida alla sorte è diventata dipendenza. Dati alla mano, infatti, di gioco d’azzardo ci si può anche ammalare. Secondo quella che gli specialisti considerano la bibbia mondiale della psichiatria, ovvero il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, almeno 700 mila adulti in Italia sono giocatori patologici. Dipendenti dal Gratta e vinci, dalle scommesse all’ippodromo o dalla slot machine, finiscono comunque per dilapidare fortune e rovinare se stessi. Tra loro, l’11% preferisce farlo al casinò. «Le case da gioco rappresentano l’élite dei giocatori d’azzardo – spiega Stefano Pallanti, direttore dell’Istituto di neuroscienze di Firenze ”. Se non altro per quanto costa trascorrerci una serata».
Al primo posto, nell’identikit del giocatore patologico di casinò, Pallanti mette infatti il reddito: rigorosamente medio-alto. «Tra i miei pazienti ci sono molti rampolli, come quel figlio di una famiglia bene diventato presidente di una squadra di calcio e finito a fare il custode ai giardini pubblici perché ha perso tutto», racconta lo psichiatra.
I disturbi, poi, viaggiano in gruppo. Di solito, chi annulla se stesso davanti ai colori della roulette è anche dipendente dalle sigarette o dall’alcol e ha squilibri alimentari. «Oltre a giocare, fuma, beve e va avanti solo a cappuccini» esemplifica ancora Pallanti. Di casinò, inoltre, si ammalano quasi solo uomini, soprattutto di mezza età. «Sono l’85% per cento, contro il 15% delle donne», quantifica Cesare Guerreschi, psicologo, fondatore e presidente della Società italiana di intervento sulle patologie compulsive. Nel suo centro, a Bolzano, il 18,15% dei giocatori patologici frequenta il casinò. «Non è un caso che la cifra sia più alta di quella nazionale – spiega – perché nelle regioni che ospitano una casa da gioco o sono più vicine, la possibilità di ammalarsi è maggiore. In Italia, le richieste di aiuto più numerose arrivano, oltre che dal Trentino-Alto Adige, dal Friuli Venezia Giulia, dalla Valle d’Aosta, dalla Liguria, dal Veneto e dal Piemonte».
Ma quando davvero la passione diventa vizio ed è il momento di chiedere aiuto? Secondo gli specialisti ci sono segnali ben precisi. «La frase "devo tornarci" che risuona nella testa sempre più spesso è il primo campanello d’allarme» spiega Pallanti. A questo segue la crescita del tempo e dei soldi investiti al tavolo verde e, soprattutto, la menzogna. «Quando, cioè, si inizia a nascondere agli altri le proprie giocate e a se stessi l’entità delle perdite» spiega ancora lo psichiatra. E, infine, «quando il gioco diventa come una sostanza psichedelica o un analgesico rispetto ai problemi della vita». a quel punto, infatti, che nella mente del giocatore, ormai patologico, prende il sopravvento il cosiddetto pensiero magico: l’ancestrale convinzione, cioè, presente anche nelle menti sane, che si possa influenzare la realtà. Talmente dominante, però, nel malato di gioco da fargli perdere il senso del rischio, fino a scommettere su numeri, combinazioni e colori guidati dal caso e statisticamente poco probabili.
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Corriere della Sera 20/12/2007
Alessia Rastelli
«Mi sono ammalato davanti alla roulette Dieci anni d’inferno, ora mi sto curando». MILANO – «Vivo in un’ansia continua e passo intere giornate al tavolo da gioco. Mi sembra di essere diventato di legno, quasi mi fossi impantanato nella melma ». Così, nel 1866, Fëdor Dostoevskij svela attraverso il protagonista de «Il Giocatore » l’animo di un uomo schiavo della roulette. Gianluca Ricci, proprietario di un bar a Gambettola (Forlì-Cesena), in cura da tre mesi perché dipendente dal gioco, è nato un secolo dopo, nel 1968, ma quando racconta la sua esperienza nei casinò, usa parole quasi identiche.
«La mia mente era concentrata solo sui calcoli e sulle strategie per vincere. Ero totalmente fuori dalla realtà», dice a proposito degli ultimi anni della sua vita, trascorsi tra viaggi settimanali nelle case da gioco di Venezia, Nova Gorica, Portorose e Kranjska Gora. Ad attrarre Gianluca, infatti, sono soprattutto roulette, caribbean poker e black jack, gli intrattenimenti che si trovano nel casinò e che lo allettano più di altri «per la possibilità di vincite forti». Sono proprio l’illusione di facili guadagni e, insieme, la «piacevole sensazione di lasciarsi andare » a far scattare la scintilla la prima volta che mette piede in una casa da gioco. il 1990, durante una vacanza a Santo Domingo ma la dipendenza arriva dieci anni dopo, in coincidenza con un cambiamento di lavoro e la rottura di una storia d’amore. «Nel 2003, poi, inizia la vera fase di disperazione», ricostruisce Gianluca che, trattamento in corso, sta imparando a rileggere il suo passato e te lo racconta data per data, passo dopo passo, con l’animo di chi, intanto, lo spiega anche a se stesso. Il gioco ormai lo assorbe completamente e non ha più nemmeno il tempo di coltivare amici e fidanzate. Fino al novembre 2006, data catartica, stavolta. La famiglia scopre che in dieci anni Gianluca ha perso oltre 250 mila euro e corre ai ripari. Non solo paga i suoi debiti ma cerca un centro specializzato che possa guarirlo.
Gianluca adesso è a Bolzano, in cura nella comunità gestita dalla Società italiana di intervento sulle patologie compulsive. Da fine settembre fa psicoterapia, frequenta gruppi di aiuto e impara da capo a gestire il denaro, come un bambino. E come un bambino guarda al futuro. Con speranza. A partire da subito, perché, annuncia, «il Natale potrò passarlo a casa con la mia famiglia».