Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2007  dicembre 18 Martedì calendario

Gli italiani conciati per le feste. Il Giornale 18 dicembre 2007. L’altro giorno ero a Torino. Poi sono tornato a Roma

Gli italiani conciati per le feste. Il Giornale 18 dicembre 2007. L’altro giorno ero a Torino. Poi sono tornato a Roma. E fin qui. Però ho visto comeprocede il Natale in entrambe le città. La prima mantiene il suo profumo tra la canfora e il Punt e Mes, la seconda, organoletticamente, non si scosta di un millimetro dai suoi filetti di baccalà fritto. Ma sono impressioni che valgono quel che valgono. Avevo da poco letto l’editoriale del New York Times secondo il quale l’Italia è diventata triste e depressa (come se una volta l’Italia fosse stata allegra e spensierata, e come se questa allegria e spensieratezza non nascondessero, come sempre, tristezza e depressione) e volevo rendermi conto sul campo se tutto questo fosse vero o no. Per esempio a Torino mi sono concentrato sui bambini. Attenzione inopportuna, visto che quando li fermi per strada i genitori ti guardano come se provenissi da Cogne. Ecco, i bambini torinesi, quando li fermi per strada e gli chiedi del Natale, ti rispondono con le frasi di circostanza che tutti i bambini del mondo, interrogati sul Natale, ti aspetti che dicano. Non deludono mai, i bambini torinesi. Ma a guardarli bene, un po’ di traverso, con quella malizia sempre sconveniente, è evidente che ti stanno parlando da nipotini bis bis di Friedrich Nietzsche. Un sorriso obliquo, una timidezza strategica ti fregano. I bambini torinesi, identici in tutto e per tutto agli adulti torinesi, sono dei nichilisti moderati in doppio petto. Hanno sempre un padre o una madre di fianco, pronti a piegargli rovinosamente il braccio, se la risposta o l’atteggiamento pubblico dei loro piccoli non è adeguato alla situazione. Crescono così, questi bambini. Da sempre sono consapevoli che non è Gesù bambino a portargli i regali ma fino all’età di quattordici anni devono fingere di crederci, per non disattendere i genitori e fargli patire una delusione rovinosa. Passeggiano tutto il giorno per il centro della città. Si fermano a comprare cioccolatini in quelle pasticcerie storiche che hanno vetrine da pompe funebri (legno scuro, velluti neri, carte dorate). In genere sono figli unici. Il padre, in lieve stato narcotico, si accompagna a una moglie che è lo sbiadito ricordo (o la pronipote) delle estasi liberty di Gozzano ("Io sono innamorato di tutte le signore / che mangiano le paste nelle confetterie. /...L’una, pur mentre inghiotte, già pensa al dopo, al poi; / e domina i vassoi / con le pupille ghiotte"). Di fianco, stretto a un braccio, spunta inesorabile la bomba a mano: quel pargoletto relativista di cui sono fieri mamma e papà e che emana un fastoso cupio dissolvi, un nichilismo religioso che nei genitori è diventato realismo, cinismo e avarizia (però con molto contegno). Romaè diversa. Mi impegno a percorrere per intero via del Corso da piazza Venezia a piazza del Popolo, una strada dritta, ricoperta di teste e cappellini colorati. Il romano chiuso nella folla ha orrore della folla. Adotta quindi un comportamento individualista che però, per contrappasso, diventa massa. lo stesso rapporto che, per esempio,Romaintrattiene con la propria gastronomia. La città si distingue, è esorbitante, templi romani, fontane di Bernini, venticinque secoli ininterrotti di bellezza mentre, culinariamente parlando, si cucinano tonnarelli cacio e pepe, coda alla vaccinara e, sabato, trippa. Succede che donne vestite come miliardarie sudamericane a Salsomaggiore incontrino altre donne vestite da miliardarie sudamericane a Salsomaggiore e ne abbiano orrore ("anvedi ’ste strappone", dicono). Entro in una profumeria e sono circondato da vecchi che si spruzzano compulsivamente acque di colonia agli agrumi. Ho il taccuino con me, ma non riesco a parlare con nessuno. La polizia presidia l’ingresso di un negozio di Walt Disney. Troppa coda. Dentro vendono topi di peluche. I clienti ne vanno matti. Mi viene in mente che i topi annunciano la peste. Ma qui a Roma è diverso. Inconsapevolmente o meno si avverte il prestigio di trovarsi all’avanguardia della decadenza universale. Si accetta il destino di fine impero che ci è proprio. Salgo su un autobus. Un uomo mi guarda. Facciamo due chiacchiere. Ha gli occhi velati di acqua e un nasone da Cesare Augusto. In mano tiene un volantino colorato con la reclame di una bottiglia di Berlucchi a nove euro. Gli parlo dell’articolo del New York Times e all’improvviso mi dice: "Quando nel resto del mondo gli uomini erano ancora sugli alberi, a Roma eravamo già froci". EDOARDO CAMURRI