Vari, 18 dicembre 2007
ARTICOLI VARI DELITTO PERUGIA
Corriere della Sera 16/12/2007
Alessandro Piperno
MEZ, AMANDA E LE NOTTI SEGRETE DEL CAMPUS. Sarebbe una bell’impudenza da chi sta per servirvi l’ultimo prodotto di quell’industria del sangue che disseta gli sfaccendati Drakula di mezzo mondo.
Inutile indignarsi: è evidente che uno dei rischi nell’essere assassinati di questi tempi è di vedere la propria foto (scattata proprio il pomeriggio in cui avevi dimenticato di lavarti i capelli) trasformata dalle circostanze in una sorta di figurazione pop. Converrete altresì che ci sono cadaveri a cui è andata molto ma molto peggio.
Ero a Perugia a caccia di qualche maldicenza che ravvivasse un affresco demoniaco che stava via via sbiadendo.
Ciò che avrei ottenuto dai giovani nottambuli perugini (resi diffidenti dall’attenzione ossessiva della stampa mondiale) era un catalogo di pulciose ipotesi sociologiche: le stesse che avrei potuto trovare su un reportage del New York Times. La frase più ricorrente suonava più o meno così: «Hanno definito Perugia la nuova Ibiza». davvero così disdicevole per una città essere raffrontata a un’ isoletta dove il sesso e la droga a buon mercato sono una garanzia costituzionale? Bah.
Rinascimento e campus
E dire che ero arrivato all’ora giusta: nel pieno di uno di quei tramonti di sangue che ti fanno capire perché il Rinascimento è proliferato a contatto di queste radure punteggiate di salici e ulivi. Perugia era là, che mi sovrastava, gli artigli conficcati nelle sue millenarie stratificazioni.
Non è eccitante l’idea di un campus universitario tradotto in uno dei più scenografici borghi dell’Italia centrale? Deportare centinaia di famiglie perugine fuori dalle porte del centro storico per lasciare spazio a migliaia di studenti provenienti da ogni luogo della terra? Non è un sensazionale esperimento postmoderno? Lo sentite nell’aria l’afrore? Ormoni, testosterone, sperma, canne, calzini da tennis, birra, vino scadente, lo spumeggiante caffè della Moca… Io lo sentivo, pur non avendo ancora messo piede a Perugia, lo sentivo: un odore promettente che mi faceva pensare a tutto il sesso che avrei potuto avere se fossi nato con un decennio di ritardo... Finché quei dolenti pensieri non hanno preso forma nel ricordo delle sottili membra di Judith, una ragazza che conobbi in una bostoniana vacanza studio alla fine degli anni ’80.
Aveva da poco compiuto vent’anni. Esibiva il sorriso accogliente delle ragazzine che per pagarsi gli studi versano l’acqua in ristoranti di lusso del New England. Mi raccontò che aveva intrapreso una gara con una compagna di stanza a chi si scopava più ragazzi in un anno. Per contarli avevano escogitato un modo ingegnoso. Ognuna aveva scelto la linguetta di una lattina di una famosa bibita: Judith quella rosa della Doctor Pepper, la sua amica quella grigia della Coca Cola. Ogni nuovo amplesso veniva segnalato alla pubblica opinione tramite l’ennesima linguetta infilata nello stendino posto in mezzo alla stanza delle due ragazzine. «Alla fine dell’anno scorso, i numeri erano da Guinness dei primati! » mi disse una sera Judith mentre gentilmente rifiutava la mia candidatura a duecentesima linguetta della stagione.
Sì, è alla mia Judith che pensavo mentre immaginavo l’eccitante squallore della casa dove Meredith era stata assassinata da un numero insensato di coltellate. Pensavo a quanto i dati da me raccolti su di lei fossero insufficienti a costruire un ritratto soddisfacente. Ma allo stesso tempo pensavo ad Amanda. Alle lettere inviatele dagli ammiratori: missive piene di amore per una presunta assassina, per una svagata ninfomane. Ecco una cosa che indigna la gente. Che qualcuno spedisca lettere d’amore a chi ha raggiunto la notorietà attraverso un omicidio. In realtà non c’è nulla di mostruoso. Si tratta di idolatria: meccanismo psicologico che spinge la gente a trasfigurare gli individui più improbabili. Non trovo le lettere ad Amanda Knox meno insensate delle lacrime versate per Lady D., e neppure del tremore che mi attraversò quando un giorno mi imbattei in Diego Simeone, mio eroe calcistico a quel tempo. Il successo – di qualsiasi natura esso sia – emana sempre una sconcertante carica sessuale che elettrizza gli individui deboli come il sottoscritto.
Dopo l’ascesa dal parcheggio sotterraneo alla città, attraverso il dedalo di scale mobili nel ventre della fortezza Paolina, eccomi boccheggiante nella lobby di un austero hotel di Via Vannucci. Uno di quegli alberghi dai polverosi interni liberty nella cui hall non fatichi a immaginare – seduto su un divano di porpora scolorita – la tozza sagoma di Henry James che lancia timide occhiate a un avvenente lift riccioluto.
Il facchino egiziano
Accetto che un facchino egiziano mi accompagni in camera solo per chiedergli cosa pensa di questa storia. L’unica frase degna di essere riportata è questa: «Alla gente di qui non frega niente di quella ragazza perché lei è straniera». Commento dettato dal risentimento ma anche da uno schietto buon senso. vero, il fatto che Meredith sia inglese ci ha risparmiato una serie di spettacoli imbarazzanti. Non abbiamo visto in Tv padri che perdonavano. Né madri che negavano il perdono. Tanto meno zii che, con lo sguardo fisso nella telecamera, sibilavano: «Vogliamo solo giustizia». Nessuna amica con le guance bagnate di lacrime è venuta a dirci che si trattava di una «ragazza davvero speciale, amata da tutti». Nessun prete si è permesso la sconcezza di prometterci un mieloso aldilà.
Nella hall ho trovato ad attendermi i ragazzi con cui avevo appuntamento. Provengono per lo più dalla sinistra giovanile, hanno stretti contatti con il mondo studentesco. Al primo sguardo mi sono apparsi puliti, gentili, desiderosi di mettersi a disposizione. Mi sbagliavo. Ho capito immediatamente che sarebbe stato difficile farli parlare di quella cosa lì nel modo in cui avrei voluto. Che erano stanchi di farsi usare. Che volevano passare al contrattacco: e usare me. Speravano che mi facessi portavoce delle loro recriminazioni: contro Bruno Vespa, contro Enrico Mentana, contro Panorama, contro tutti. Come se fossi una specie di ispettore russo di un fantasmatico Ministero dell’Informazione mandato a riparare i presunti torti commessi da una categoria alla quale per altro non appartengo. Capii che qualcosa non andava quando mi promisero un tour subito dopo cena: da «Le chic», locale di Lumumba alla casetta di Meredith e Amanda: lo stesso giro che avevano propinato a una dozzina di giornalisti di altrettante testate nelle scorse settimane. Mi sentii demoralizzato.
Il comitato d’accoglienza
Eppure non potevo farci niente. Era Luca Gatti a comandare il comitato d’accoglienza. Un trentenne la cui zazzera scarmigliata serviva a tenere a bada un naso prominente. Tanto che il viso, per altro gradevole, sembrava essere opera di un fumettista giapponese. Anche il modo di presentarsi esibiva l’orientale vezzosità di un cartone animato: pantaloni a strisce verticali, romantica sciarpa di seta verde, occhi la cui scintillante vacuità doveva risultare seduttiva per un certo tipo di ragazze molto giovani. Luca, consapevole di questo suo tratto indubitabilmente carismatico, si era messo a disposizione della comunità studentesca. Aprendo un centro che aiutava le matricole a raccapezzarsi. L’ufficio, nel quale dapprima mi condusse, si presentava come un sottoscala luminoso all’ultimo piano di un palazzotto. C’era qualcosa di rassicurante nella banalità delle pareti fitte di ritagli di giornale che ritraevano Lennon, Dylan, De Niro, il Dalai Lama, la solita paccottiglia pop.
Ti veniva facile immaginare la fila di studenti spaesati che si mettono nelle mani di questi ragazzi sorridenti e garbati come maestri di sci. «Le americane sono le più disponibili, le cinesi le più studiose» mi disse uno degli amici di Luca con l’annoiata perentorietà di chi dispone di una casistica illimitata. Anche Meredith e Amanda erano passate di qui? Luca mi mostrò un cimelio. Una mail ricevuta qualche mese fa di Raffaele Sollecito (uno dei sospettati dell’omicidio di Meredith, un tipo il cui quoziente intellettivo è misurabile dal fatto che si è presentato alla polizia con un coltello in tasca per essere interrogato a proposito di un omicidio avvenuto per accoltellamento).
Nella mail ruvidamente referenziale Sollecito chiedeva a Luca di trovargli una partner di madre lingua con cui parlare in tedesco. La cosa, mi spiegò Luca, non era andata in porto. «Sai, ha trovato di meglio» ha commentato con un sorriso allusivo. Il cinismo, ecco il modo attraverso il qualche i ragazzi provano a liberarsi dalla nausea che tutto questo ormai gli suscita. Ecco perché sempre Luca mi dice: «In fondo questa storia mi ha permesso di allacciare un sacco di contatti interessanti. L’altro giorno sono stato a spasso con una tipa del New Yorker. Mica male, no?».
Basta dare un’occhiata ai pretenziosi bicchieri di Barolo esibiti alla cassa del ristorante dove mi hanno trascinato, per capire che anche qui è arrivata la nouvelle vague modaiola simil-raffinata che ha stravolto la ristorazione italiana. Questo è il posto giusto per presentarmi Davide, un nerboruto trentacinquenne di origine pugliese che, venuto anni fa a Perugia per il servizio militare, ci è rimasto. Sebbene ora faccia il pr con successo sembra ancora un militare: capelli tattici, fisico tonico, jeans stretti, giubbotto sportivo. Gli verso del vino. Lo rifiuta. «Bevo solo acqua ».
Organizza feste per vivere, ma è una persona sobria e riservata che, quando non lavora, preferisce starsene a casa. Anche lui è già stato intervistato una ventina di volte. Anche lui ha stilato la classifica dei giornali onesti e di quelli disonesti. Anche lui, come tutti gli altri, si aspetta che io sia più corretto dei miei predecessori. Anche lui ha una precotta opinione sulla vicenda e vuole a tutti i costi esprimerla. Questo è il lato più frustrante della questione. Tutto quello che potrò avere da costoro è un collage di opinioni: severe, limpide, ben argomentate, inoppugnabili ma del tutto insipide.
Due sedie davanti alla porta
Frattanto, usciti dal ristorante, ci inerpichiamo su un vicolo d’una pendenza per nulla fastidiosa, che di tanto in tanto offre scorci sulla città e sulla vallata. Tutto è di una bellezza intollerabile. L’aria gelida profuma ancora di timo e di carne abbrustolita. Sono sfinito. Vogliono portarmi a un festa. «Sai qui come funziona? Apri la porta di casa, metti un paio di sedie fuori. il segno che tutti possono entrare». Ma il tour prevede anche una capatina alle vie dello spaccio. Non capisco che diavolo c’entri tutto questo con Meredith e con Amanda. A tal punto che, d’un tratto, chiedo spazientito: «Ma insomma qualcuno di voi conosceva Meredith o Amanda?». No, nessuno. Erano tutti amici di Patrick Lumumba, dell’unico che non c’entra niente. Se tutti concordavano sul fatto che era stato un’indecenza incastrarlo, non tutti apprezzavano il modo in cui lui stava sfruttando finanziariamente la sua sventura. Ancora una volta il discorso scivolava via da quel centro ideale rappresentato da Meredith e Amanda per appisolarsi sulle calde lenzuola dell’ovvio. (Durante quella notte avrei chiesto almeno a un’altra trentina di persone se avevano mai incontrato Meredith e Amanda. Ottenendo sempre risposte negative. Certo, tutti avevano un’amica che a sua volta era amica dell’ una o dell’altra. Ma niente più di questo).
«Non le hai viste neppure a una delle tue feste al Velvet?» chiedo a Davide.
«Ci vengono sempre centinaia di persone. Può essere».
«Che tipo di feste fai?».
«Tranquillissime. Musica anni ’80. I ragazzi si divertono. Nessun problema. così che mi piace organizzarle. Senza alcun problema. Alle due tutti a nanna».
«Guadagni molto?».
«Certo. Anche se di solito una parte degli incassi li devolviamo in beneficenza. L’ultima volta abbiamo dato un po’ di soldi a Emergency».
Beneficenza e inviti
Proprio mentre sto pensando a quanto questa faccenda della beneficenza sia intollerabilmente perbenista e pacchiana, proprio mentre sto pensando come perfino gli organizzatori di feste siano traviati dalla diffusa banalità dei costumi contemporanei, Luca mi mostra il display del suo telefonino sul quale campeggia un sms che gli è appena arrivato: «VIENI?».
«Chi è?» gli chiedo. « una che mi aspetta ». «Una chi?». «Una che quando vuole scopare mi chiama». «Età?». «Venti». «E cosa stai aspettando!». «Che palle, non so se ci vado. In ogni modo ora mi finisco la grappa!».
Ecco come sono questi ragazzi: puritani nelle concezioni, assolutamente liberi nelle pratiche, decisamente scoglionati nell’umore. Connubio noioso e melanconico. Così come è noiosa e melanconica la casa in cui mi hanno portato. Ed è allora – proprio in qual momento – che avverto l’odore che avevo sognato, quell’odore inconfondibile di ormoni, testosterone, sperma, canne, calzini da tennis, birra, vino scadente, spumeggiante caffè della Moca... L’odore delle case degli studenti di tutto il mondo. L’odore che presumibilmente Meredith deve aver avvertito mentre moriva. Un odore così ripugnante che mi spinge a fuggire via prima di essere sopraffatto da una tristezza definitiva.
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Corriere della Sera 17/12/2007
F.Sar.
Amanda cambia linea Adesso è pronta a parlare con i pm. ROMA – Amanda adesso dice che vuole parlare, spiegare, chiarire. Amanda adesso vuole cambiare versione. «Mentre Meredith veniva uccisa ero lì. Ho sentito un grido e mi sono tappata le orecchie, ma sapevo quello che stava succedendo», aveva confessato all’alba del 6 novembre dopo aver accusato Patrick Lumumba Diya di essere l’assassino. Ma questa mattina, di fronte al pubblico ministero Giuliano Mignini che la interrogherà alle 9.30 nel carcere di Capanne a Perugia, forse dirà che non c’era, che dormiva, che era da un’altra parte.
Forse. Perché alla fine Amanda potrebbe anche decidere di avvalersi della facoltà di non rispondere, proprio come ha fatto di fronte ai giudici che dovevano decidere se dovesse continuare a stare in carcere. Al tribunale del Riesame si era limitata a rilasciare una dichiarazione spontanea: «Mi dispiace per la confusione che ho provocato, ma io non c’ero». Troppo poco per uscire da questa storia. Troppo poco per colmare i «buchi» nel suo alibi.
La protagonista di questo mistero che comincia la sera del primo novembre in quella villetta di via della Pergola dove Meredith Kercher viene uccisa con una coltellata alla gola, continua ad essere lei: Amanda Knox, 21 anni, americana di Seattle, in Umbria per il progetto Erasmus. Il suo fidanzato Raffaele Sollecito – che con lei e con Rudy Hermann Guede è accusato di concorso in omicidio e violenza sessuale – prima l’ha «coperta » affermando che erano stati insieme dal pomeriggio del delitto fino alla mattina successiva. Poi ha ammesso di aver raccontato bugie e ha spiegato che «Amanda uscì verso le 21 e tornò all’una di notte, mentre io ho sempre lavorato al computer». Infine davanti al Riesame si è nuovamente corretto: «Io ero a casa, non ricordo se Amanda sia uscita».
L’accusa lo smentisce: «Non era al computer». Sottolinea come i due fidanzati – a differenza di quanto facevano abitualmente – abbiano spento i cellulari dalle 21 sino all’alba. Evidenzia le tracce trovate nella villetta dalla polizia Scientifica. E alla fine li colloca insieme a Rudy nella casa dove è avvenuto l’omicidio, anche se non riesce a delineare ruoli e movente. Oggi potrebbe essere il giorno di una nuova verità.
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Corriere della Sera 18/12/2007
Fiorenza Sarzanini
Amanda, sei ore davanti ai pm Urla e lacrime al nome di Patrick. PERUGIA – Piange, urla, si dispera. E va in tilt. Quando sente pronunciare il nome di Patrick Lumumba Diya e il pubblico ministero le chiede perché lo abbia accusato di essere l’assassino, Amanda Knox ha una crisi isterica. Proprio come avvenne la notte del 5 novembre, quando poi confessò di essere nella casa mentre Meredith veniva uccisa. Paura che si trasforma in mutismo appena il magistrato le contesta l’accusa di un nuovo testimone. il fidanzato della sua coinquilina: «Il 2 novembre – ha messo a verbale – Amanda disse che Mez era stata uccisa davanti all’armadio». All’epoca nessuno era a conoscenza di questo particolare, perché il cadavere fu trovato vicino al letto e soltanto in seguito la polizia scientifica ha scoperto tracce di sangue sulle ante del mobile dimostrando così che il corpo era stato spostato. E allora, come mai Amanda conosceva quel dettaglio? «Era lì, partecipò al delitto», dicono gli inquirenti.
Comincia alle dieci l’interrogatorio e la giovane americana appare tranquilla. «Sono innocente – giura ”, la sera del primo novembre ero con Raffaele Sollecito a casa sua. Abbiamo fumato, fatto l’amore, poi mi sono addormentata ». la versione dei primi giorni, lei la ripete come se nulla fosse intanto accaduto. E anzi omette alcune circostanze. Non dice che il suo fidanzato ha lavorato al computer, come invece aveva fatto prima addirittura ricordando il nome del film che avevano scaricato grazie a un programma Internet. Non parla più delle telefonate che sarebbero arrivate.
«Mi sono svegliata alle dieci – aggiunge – sono andata a casa per farmi una doccia.
Raffaele dormiva ancora ». Anche in questo caso rimane vaga, fornisce risposte generiche. Non dice che in realtà il fidanzato – come risulta dagli accertamenti tecnici – ha ricominciato a lavorare al pc all’alba, esattamente alle 5,35 di quella mattina. Non parla dell’sms che lo stesso Sollecito ha ricevuto mezz’ora dopo, cioè quando ha riacceso il telefonino tenuto spento per tutta la sera. Proprio come fece lei. Glissa su quelli che all’apparenza sono dettagli e in realtà sono tasselli importanti dell’inchiesta.
Verso le 15, il pubblico ministero affonda il primo colpo: «Vorrei sapere perché ha accusato Patrick di essere l’assassino ». Amanda comincia a tremare e scoppia in lacrime. «Ho dei flash, flash», urla ripetendo quello che aveva già scritto nel memoriale consegnato alla polizia il 6 novembre, poco prima di essere trasferita in carcere. L’interrogatorio viene sospeso, ma ai legali è vietato avvicinare la giovane. La pausa dura una decina di minuti, poi la ragazza è di nuovo davanti al magistrato. «Come faceva a conoscere i dettagli della scena del delitto? », le chiede. Amanda ha un attimo di esitazione. «Mi avvalgo della facoltà di non rispondere », sussurra. E l’interrogatorio finisce.
Perché la ragazza è così spaventata? Che cosa è successo quella sera? Il suo rapporto con Patrick era limitato al lavoro nel pub, o c’è altro? Il congolese è stato scarcerato quando i testimoni che aveva indicato hanno confermato di averlo visto nel locale la sera del delitto. Ma non è uscito dall’inchiesta. Negli inquirenti rimane il sospetto che un ruolo in questa vicenda, sia pur marginale, possa averlo avuto. Non escludono che possa essere arrivato dopo, anche se ad avvalorare questa ipotesi c’è soltanto il terrore di Amanda quando viene pronunciato il suo nome.
Molto più complicata appare la posizione dell’americana, che ieri sembra essersi ulteriormente aggravata. Il fatto che avesse fornito dettagli sulla scena del delitto, convince l’accusa che lei fosse lì, come del resto ha ammesso per ben tre volte (il 5 novembre davanti alla polizia, qualche ora dopo davanti al magistrato, qualche ora dopo ancora nel memoriale consegnato). «Ma non ho ucciso Meredith », ha sempre detto. Proprio come Rudy Hermann Guede. Lui certamente c’era. Lo ha confessato e lo dimostrano le tracce del suo Dna. Eppure Amanda non lo nomina mai, come se non esistesse. Un silenzio sospetto, tanto che gli stessi giudici del Riesame hanno ipotizzato «un’intesa fra i due». E in questo presunto accordo inseriscono anche Raffaele.
Sul ruolo del suo fidanzato Amanda non ha mai detto nulla di preciso. «Non ricordo se era lì», è la sua versione. Ma ieri una «stoccata», l’ha data. Raffaele ha scritto che Meredith si era punta con il suo coltello – dove sono state trovate tracce del Dna della vittima e della stessa Amanda – mentre cucinavano insieme. «Mez – ha affermato l’americana – non è mai stata a casa di lui».
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Corriere della Sera 18/12/2007
Alessandro Capponi
Nessuno affitta casa ai Knox Da fine mese senza un tetto. PERUGIA – Quando scoprono che la persona interessata all’appartamento è la mamma di Amanda Knox, molti reagiscono nello stesso modo: «Ah, ecco, sì, solo che, vede, in verità abbiamo appena deciso di non affittarla, di fare prima i lavori di ristrutturazione... ». La studentessa di Seattle è in carcere da un mese e mezzo, quasi, e i suoi genitori dall’America l’hanno raggiunta immediatamente dopo l’arresto: da allora, però, né Edda Mellas né il suo ex marito Kurt sono riusciti a prendere una casa in affitto. Nel centro di Perugia, proprio su corso Vannucci, dei piccoli altoparlanti diffondono le note di Jingle bells e sulla città cade neve sottile. Eppure, questa, non è una storia natalizia. «Viene sempre fuori qualche lavoro da fare alla casa, o un altro cliente che aveva visto l’immobile prima di noi, o altre difficoltà impreviste – racconta chi in questi giorni ha cercato di aiutare la famiglia Knox a trovare un appartamento in affitto ”, ma è evidente che la verità è un’altra... ». Difficile dire quale sia, la verità: certo è che in questa città i giornali sono colmi di annunci, che gli studenti arrivati in Umbria per l’università trovano un posto per vivere in pochi giorni, e che il mercato degli affitti sembra meno proibitivo e con più occasioni che in altri capoluoghi. E allora, come mai la mamma e il papà di Amanda non sono ancora riusciti ad affittarne uno? Magari è solo sfortuna, magari le case vagliate davvero erano già state promesse ad altri, magari qualche volta non si saranno accordati sul prezzo: «No, niente di tutto questo, semplicemente gli appartamenti sono liberi e disponibili fino a quando i proprietari non scoprono il nome della persona interessata ». Che quello, Knox, sia un cognome non proprio amato a Perugia, è fin troppo evidente: ma basta, questo, per spiegare quanto sta accadendo? Chissà.
Di certo, adesso i parenti di Amanda (dagli Stati Uniti è arrivata anche una zia di Amanda, la sorella di Edda Mellas) sono a Mantignana, quindici chilometri dalla città, prima del lago Trasimeno. Il Comune si è fatto carico dell’ospitalità, all’inizio, «sì certo – racconta il sindaco di Perugia, Renato Locchi ”, i primi giorni li abbiamo sistemati nella nostra foresteria, avevano avuto anche problemi con i bagagli che erano rimasti a Zurigo. Poi però so per certo che hanno trovato un’altra sistemazione ». Esattamente, sono andati ospiti da un perugino che fa parte del comitato per il gemellaggio tra la città umbra e Seattle. Solo che, adesso, a fine dicembre, dovranno ancora cambiare. Per questo, nelle ultime settimane, la ricerca di un nuovo appartamento si è fatta frenetica. I risultati fin qui, come detto, non sono stati incoraggianti. «Quando questa storia sarà finita – ha scritto tempo fa Amanda in una lettera alla madre ”, vorrei continuare a vivere qui». La data è il 4 novembre: da allora, però, per Amanda viso d’angelo Knox tutto è cambiato. Forse anche Perugia.
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La Repubblica 18/12/2007
MEO PONTE
"Non so perché ho accusato Patrick". PERUGIA - Basta una domanda su Patrick Lumumba a mandare in crisi Amanda Knox. Quando il pm Giuliano Mignini le chiede perché abbia accusato il congolese che le ha dato lavoro nel suo locale la giovane americana dapprima balbetta: «La polizia mi ha fatto pressioni perché facessi il suo nome, non so perché l´ho fatto…». Poi crolla in un pianto isterico e tremando come una foglia, farfuglia: «Nei flash back vedo Patrick come l´assassino ma il modo in cui la verità appare nella mia mente non c´è nessun modo di appurarla…».
Si infrange così, su un quesito inevitabile, il tentativo di Amanda Knox di raccontare «la sua verità» al magistrato che coordina l´inchiesta sull´uccisione di Meredith Kercher. I suoi avvocati, Luciano Ghirga e Carlo Dalla Vedova, avevano ponderato a lungo la scelta di farla rispondere alle domande del pm. Incoraggiati dalla lucidità dimostrata da Amanda nei quarantuno giorni passati in cella, avevano deciso di accettare l´interrogatorio. Alle 9,30 di ieri quindi Amanda si era presentata al pm in un´aula del carcere di Capanne pronta a ribadire la sua innocenza. Ad accoglierla oltre al magistrato un interprete, il capo della Mobile Giacinto Profazio e la responsabile della Omicidi, il commissario Monica Napoleoni.
«Ho passato la notte a casa di Raffaele - aveva detto al pm - Abbiamo visto un film, fumato qualche canna e fatto l´amore poi mi sono addormentata. Mi sono svegliata alle 10…». Aveva ammesso di essere stata in via Della Pergola 7 sottolineando: «Ero andata lì per farmi la doccia. Ho notato il bagno sporco, le feci nel water ma non vi ho dato peso. Non c´erano asciugami e ho usato il tappettino per slittare sino alla mia camera…». Poi il racconto di come aveva raggiunto Raffaele e dei suoi timori per quanto poteva essere successo a casa: «Siamo andati insieme e dopo aver visto il vetro rotto abbiamo deciso di chiamare i carabinieri…». Nel suo racconto però erano apparse le prime crepe. Come quando aveva sottolineato che Meredith a casa di Raffaele Sollecito non c´era mai stata. Una precisazione in netto contrasto con quanto scritto dallo studente pugliese nel suo memoriale dove aveva ricordato di aver ferito Meredith con un coltello da cucina mentre stava preparando il pranzo. In più non aveva menzionato il computer che Raffaele aveva messo alla base del suo alibi.
La crisi vera e propria però arriva quando il pm le chiede perché la sera del 6 novembre in questura aveva accusato Patrick Lumumba. Lei farfuglia di essere stata sotto stress poi crolla in lacrime, scossa da tremiti violenti. Balbetta frasi sconnesse. Il pm interrompe l´interrogatorio ma le vieta ogni contatto con i difensori. Quando Amanda pare essersi calmata Mignini a sorpresa le fa un´altra domanda: «Perché a Marco Zaroli, il fidanzato di Filomena Romanelli, la sua coinquilina, lei ha raccontato il giorno dopo la scoperta del delitto di aver visto il cadavere di Meredith accanto all´armadio?». Amanda allibisce. Sa che il corpo della coinquilina inglese è stato trovato vicino al letto ma ignora che gli schizzi di sangue scoperti sulle ante dalla Scientifica hanno convinto gli investigatori che la studentessa inglese è stata uccisa di fronte all´armadio. Apre la bocca per parlare poi, guarda negli occhi l´avvocato Luciano Ghirga e sospira: «Mi avvalgo della facoltà di non rispondere». L´interrogatorio si chiude qui. Domani il pm sentirà ancora Zaroli, oggi la Scientifica torna in via della Pergola 7. Gli avvocati di Amanda, scuri in volto, lasciano il carcere alle 16 e spiegano: «Amanda ha risposto alle domande del pm e ribadito la sua estraneità alla morte di Meredith. L´accusa invece la ritiene ancora coinvolta nel delitto».
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La Stampa 18/12/2007
GUIDO RUOTOLO
Amanda dal pm per ritrattare Poi crolla e piange. PERUGIA. Prova a cambiare versione, a convincere il pm Giuliano Mignini che lei, la notte dei «morti», è stata a casa di Raffaele, ha fumato, fatto l’amore e dormito fino alla mattina dopo, alle dieci, glissando sui messaggi sms scambiati con Patrick, sul dvd («Il meraviglioso mondo di Amelie») visto al computer di Sollecito. Poi, quando il pm le chiede perché aveva accusato Patrick, Amanda Knox scoppia a piangere, chiede una pausa dell’interrogatorio, riprende e ripete quel che aveva scritto nel suo primo memoriale: «Ho dei flash, ho dei flash, vedo Patrick... immagini confuse...». E tace, non risponde. L’interrogatorio si fa teso quando il pm le contesta particolari («Meredith è stata uccisa davanti all’armadio») che lei ha riferito nei giorni prima dell’arresto ad amiche e a fidanzati delle coinquiline italiane, Amanda crolla e si avvale della facoltà di non rispondere.
Sette settimane in cella a pensare, ma soprattutto a scrivere pagine e pagine di appunti, di memoriali, di lettere. Di tempo per non essere più «confusa» ne ha avuto, ma non sembra che ne abbia approfittato.
I suoi difensori (avvocato Giancarlo Costa) all’uscita dal carcere, dopo sei ore di interrogatorio, fanno buon viso a cattivo gioco: «Amanda ha risposto a tutte le domande, vi è stata una piena collaborazione, siamo assolutamente fiduciosi». Sarà, ma la posizione della luciferina studentessa di Seattle non sembra proprio essersi alleggerita. Anzi. La sua ricostruzione della notte dei «morti» (e i movimenti orari e spostamenti del giorno dopo nella stessa casa di via della Pergola 7), potrebbe ritorcersi contro, aggravando ancora di più la sua posizione.
Se Amanda è ferma nella ritrattazione della sua confessione a poche ore dal fermo - salvo poi, a proposito di Patrick, ricollocarsi di nuovo nella casa di via della Pergola 7 -, ripetendo che quella sera è sempre stata con Raffaele e a casa del suo fidanzato, a proposito del coltello di Sollecito con il suo Dna e quello di Meredith, invece lascia cadere: «E’ vero, Meredith non è mai stata a casa di Raffaele». E allora, come è finita quella traccia di Dna della povera vittima sul coltello? Forse Amanda spera di uscirne fuori legando il suo destino a quello di Raffaele?
Ma soprattutto fa riflettere quella sua improvvisa decisione di avvalersi della facoltà di non rispondere quando il pm Mignini le ha contestato quei «particolari» che sembravano insignificanti, all’inizio dell’inchiesta. Un passo indietro nel tempo, a quel due novembre scorso. A poco più di due ore dal rinvenimento del corpo senza vita di Meredith. Sono le 15,30 e Amanda Knox verbalizza: «Il mio ragazzo mi ha detto di aver visto un corpo coperto dalle lenzuola nell’armadio, si vedeva solo un piede». Poi, ad amiche e a fidanzati delle coinquiline è stata ancora più esplicita: «L’hanno ammazzata davanti all’armadio». Non poteva saperlo, Amanda. Perché quando fu sfondata la porta della stanza dov’era Meredith, nessuno di loro entrò. E il corpo senza vita della ragazza inglese fu trovato a terra, in parallelo al letto. Ma la Scientifica è convinta che Meredith fu ammazzata proprio accanto all’armadio.
Quello di Perugia è un giallo senza fine. Si annunciano novità. Nei giorni scorsi, gli investigatori perugini spiegavano che si stavano verificando «spostamenti e orari» di tutti gli indagati. Formalmente, dunque, anche di Patrick. Spingersi oltre, oggi, potrebbe essere soltanto frutto della fantasia di uno scrittore noir. O no?