Corriere della Sera 16/12/2007, pag.35 Sergio Romano, 16 dicembre 2007
IRAQ: GLI INCERTI PROGRESSI VERSO LA NORMALIT
Corriere della Sera 16 dicembre 2007. passato poco meno di un anno da quando il presidente degli Stati Uniti George Bush annunciò la propria decisione di procedere a un incremento temporaneo del numero di truppe dispiegate in Iraq, la cosiddetta «surge», con lo scopo di contrastare un clima di violenza dilagante.
Una decisione controversa che suscitò molte critiche; non pochi, infatti, sostennero senza mezzi termini che quella fosse una scelta sbagliata, addirittura l’esatto contrario di ciò che si sarebbe dovuto fare e cioè ritirare le truppe. Ma oggi, e in un arco di tempo relativamente breve, si notano segnali di miglioramento; il numero di attentati e di vittime, sia tra i civili iracheni che tra i militari americani, è in continuo calo e questo clima di minore violenza si riflette anche su un certo miglioramento delle condizioni generali dell’Iraq. Una situazione alla quale ha contribuito anche un cambio di approccio, ben più pragmatico, da parte delle forze militari americane, mentre è altrettanto vero che i problemi da risolvere restano molti; eppure, alla luce di questi cambiamenti, non è che qualcuno dovrebbe ammettere di aver sbagliato qualcosa a tal proposito?
Giovanni Martinelli
Caro Martinelli,
Ho già risposto negli scorsi giorni a un’altra lettera sullo stesso argomento. Vi è stata da allora una impennata nel numero degli attentati, ma la situazione resta quella descritta nella sua lettera e nella mia risposta. L’aumento delle truppe e gli accordi con i leader tribali del Triangolo sunnita hanno permesso agli americani di meglio controllare il territorio e di creare migliori condizioni di vita a Bagdad. Ma la guerriglia si è spostata in regioni del Paese dove la presenza delle truppe degli Stati Uniti è insufficiente. Le vicende di questi ultimi anni dimostrano che centocinquantamila soldati non bastano al mantenimento dell’ordine in un Paese che ha una superficie di 434.128 km quadrati e dove una parte considerevole della popolazione è ostile all’occupante.
Esiste poi un aspetto politico che la strategia degli scorsi mesi ha messo in maggiore evidenza. Quando terminò la guerra contro Saddam Hussein, nella primavera del 2003, l’amministrazione americana del Paese occupato punì i sunniti colpendo le istituzioni (il partito Baath, le forze armate) in cui avevano esercitato un ruolo dominante e dette di fatto il potere alla maggioranza sciita. Quella scelta ebbe l’effetto di suscitare malumori sunniti che contribuirono alla creazione di un grande fronte antiamericano composto da nostalgici del regime di Saddam, nazionalisti arabi e fondamentalisti islamici. Più recentemente, sfruttando la rabbia dei capi tribù sunniti per l’arrogante invadenza degli islamici nei loro territori, gli americani hanno elargito favori e armi ai loro nuovi alleati. Ma l’operazione avrà successo soltanto se il governo iracheno si dimostrerà capace di creare un quadro istituzionale in cui sunniti e sciiti possano convivere. Occorre una legge sull’equa distribuzione delle risorse petrolifere e occorre che i sunniti non vengano lasciati ai margini della vita pubblica. Per battere Al Qaeda nel Triangolo gli americani hanno distribuito armi alle tribù e creato, di fatto, nuove milizie sunnite. necessario che queste milizie vengano ora assorbite all’interno della polizia o del-l’esercito iracheni. Ma gli sciiti per il momento non sembrano disposti ad accettare una tale prospettiva. E nessuno sa quale uso i sunniti faranno delle loro armi quando Washington, come vorrebbe fare nella prossima primavera, comincerà a ridurre il livello del contingente.
Aggiunga a questo, caro Martinelli, che anche a Bagdad la normalità resta un obiettivo lontano. Qualche giorno fa abbiamo appreso che un piccolo gruppo di persone, fra cui alcuni giornalisti, è andato a visitare il museo di Bagdad, per anni gloria culturale dello Stato iracheno. Dopo il saccheggio avvenuto nei primi giorni dell’occupazione, il museo ha recuperato solo circa 4.000 dei 15.000 pezzi trafugati e non può riaprire i battenti. Esistono d’altro canto circa migliaia di siti archeologici incustoditi o mal custoditi da cui sarebbero scomparsi circa 17.000 pezzi. Questo accade quattro anni e mezzo dopo quella che fu definita una vittoria.
Sergio Romano