Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2007  dicembre 16 Domenica calendario

Gas serra, le illusioni infrante a Bali. Corriere della Sera 16 dicembre 2007. Circa 47mila tonnellate di CO2 prodotte per portare a Bali i 12 mila delegati della conferenza dell’Onu e per isolarli dal clima caldo e umido dell’isola indonesiana

Gas serra, le illusioni infrante a Bali. Corriere della Sera 16 dicembre 2007. Circa 47mila tonnellate di CO2 prodotte per portare a Bali i 12 mila delegati della conferenza dell’Onu e per isolarli dal clima caldo e umido dell’isola indonesiana. Chi aveva usato questi dati per sostenere che il summit mondiale sul clima avrebbe prodotto più danni che vantaggi all’ambiente, vede nell’accordo di Bali – solo l’intesa su un calendario di negoziati senza impegni sulle azioni da intraprendere – una conferma della sua tesi paradossale. Certo, un accordo concreto e di vasta portata era fuori dalle possibilità negoziali, vista l’enorme distanza delle posizioni di partenza dei 190 Paesi rappresentati a Bali. Ma due settimane di discussioni non hanno prodotto alcun riavvicinamento. L’unico risultato significativo è il ritorno degli Stati Uniti al tavolo del negoziato per la definizione di un accordo per il dopo-Kyoto: il Protocollo, dal quale gli americani si erano a suo tempo autoesclusi, scade nel 2012. Il modo nel quale si è giunti al compromesso – con Washington uscita dall’isolamento e ormai affiancata nel «no» a impegni rigidi da Paesi come Giappone, Russia e Canada, e con l’Europa che è arrivata a minacciare il boicottaggio di un’altra conferenza ambientale promossa da Bush in caso di mancata sigla di un accordo – non giustifica alcun ottimismo, ma, almeno, sgombra il tavolo dalle polemiche sul «satana americano». Gli Usa sono il Paese che produce e inquina di più, ma prendersela con Bush è servito fin qui solo a distogliere l’attenzione da problemi che sono molto complessi e che riguardano tutti i Paesi. Quelli industrializzati, allarmati dagli effetti di una globalizzazione che sposta gli equilibri di potere e la produzione di ricchezza verso l’Asia, faticano a proporre a cittadini già sfiduciati i sacrifici e i cambiamenti del modello di consumi richiesti da un programma di drastica riduzione delle emissioni di «gas-serra». Le cose non vanno meglio dalle parti dei Paesi emergenti come India e Cina: continuano a ricalcare – nella loro crescita tumultuosa – i percorsi di industrializzazione forzata e di esplosione dei consumi sperimentati da Usa ed Europa nell’ultimo secolo, e, per quel poco che sono disposti a fare per l’ambiente, chiedono l’aiuto finanziario e tecnologico dei Paesi occidentali, nonostante gli enormi capitali accumulati grazie al boom dell’export. Tra i Paesi che hanno visto infrangersi a Bali le loro ultime illusioni c’è anche l’Italia. Pensavamo di avere diritto a un posto nel recinto delle nazioni virtuose solo per aver accettato i vincoli di Kyoto. Scopriamo, invece, che l’incapacità di affrontare nodi come quello di un sistema di trasporti inefficiente e a forte impatto sull’ambiente, toglie credibilità ai nostri impegni e ci relega nel girone di Paesi, come la Cina, che inquinano selvaggiamente ma, almeno, sono in piena crescita. Con la politica che – con alcune positive eccezioni come quella della Germania – non riesce a coagulare il consenso su programmi incisivi, la speranza è che la sfida del taglio delle emissioni di CO2 venga vinta dall’economia. Sono ormai centinaia le multinazionali che si dicono impegnate a combattere i gas-serra: non per un sussulto etico, ma perché il degrado ambientale ha un costo crescente mentre energie alternative e tecnologie di disinquinamento promettono di diventare i grandi business del futuro. Campi nei quali l’Europa – che ha perso la sfida dell’informatica a favore degli Usa e dell’ Asia – dispone di industrie, tecnologie e centri di ricerca che le potrebbero consentire di recuperare un ruolo centrale. Che questa sia la strada del futuro lo dimostra anche la lenta trasformazione della Silicon Valley californiana in green valley delle tecnologie ambientali nella quale perfino Google si cimenta coi pannelli solari ed energia eolica. Ma bisogna stare attenti a non passare dal mito del «satana americano» a quello dell’innovazione che risolve tutti i problemi: a differenza delle tecnologie dell’informazione, quelle energetiche richiedono investimenti finanziari enormi, offrono rendimenti non certi (dipendono dalle variazioni dei prezzi delle varie fonti) e, comunque, molto differiti nel tempo. Ma, soprattutto, hanno un impatto sociale e richiedono quadri regolatori tali da rendere necessario un massiccio coinvolgimento della politica. MASSIMO GAGGI