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 2007  dicembre 19 Mercoledì calendario

2 ARTICOLI

Gli Ogm sono tra noi. Panorama 19 dicembre 2007. «Nessun fondamentalismo, ma nemmeno nessuna arrendevolezza». Così si chiude il messaggio inviato al presidente del Consiglio, Romano Prodi, da Mario Capanna, responsabile della Fondazione per i diritti genetici e promotore di una consultazione nazionale per un modello di sviluppo agroalimentare di qualità «libero da ogm». Tre milioni i voti raccolti fino al 9 dicembre. Ma oggi, ci si chiede, è ancora possibile determinare una svolta? Far ripensare, come vorrebbero 18 paesi dell’Ue, alla strategia fin qui perseguita sulle biotecnologie che hanno aperto il mercato agli organismi geneticamente modificati? Gli ogm, appunto, protagonisti di una rivoluzione che coinvolge agricoltura e animali d’allevamento, ciò di cui ci nutriamo, ma anche il mondo della biomedicina?

Allarmismi, polemiche e contestazioni hanno diviso i politici in modo trasversale: il presidente della Camera, Fausto Bertinotti, evoca il principio di precauzione, mentre l’ex ministro per le Politiche agricole Gianni Alemanno bacchetta la Commissione europea che «ignora la sensibilità diffusa tra i cittadini». E anche gli scienziati, che in certi casi paventano «conseguenze imprevedibili» e in altri parlano di «spauracchi inesistenti». Se i fautori degli ogm sventolano la bandiera del principio di libertà e del dovere della scienza ad andare avanti, i difensori dell’ambiente temono l’impatto sulla biodiversità e la possibilità che il rilascio di ogm possa produrre effetti irreversibili. Senza contare i dubbi avanzati sulla sicurezza per l’alimentazione umana e animale.

Gli studi condotti dall’associazione Observa-Science in society su «Biotecnologie e opinione pubblica» dal 2000, l’ultimo è del 2005-6, chiariscono la posizione del nostro Paese, uno dei più intransigenti nella Ue verso gli ogm. «Gli italiani non li sentono come un rischio assoluto, è una percezione che negli anni, dopo la demonizzazione iniziale, si è sfumata. Pesticidi, antibiotici per uso zootecnico sono considerati un pericolo maggiore» puntualizza Valeria Arzenton, sociologa, responsabile delle attività Scienza e società di Observa. «Gli ogm sono visti come una minaccia a tradizioni e cultura alimentari. Una perdita della salubrità del cibo e delle sue funzioni sociali e di identità, timore che rientra nelle paure per ciò che è industrializzato, standardizzato nel mercato alimentare, con i processi di sofisticazione, contraffazione, manipolazione. Più le perplessità sui controlli: su quali si fanno e su chi li fa».

Un’avversione verso tutto ciò che è manipolato e incontrollabile? Oppure pregiudizi, battaglie ideologiche e interessi economici? Forse tutti questi ingredienti. Tuttavia, l’unica cosa davvero certa è che gli ogm sono entrati ormai nella nostra vita, ci circondano in modo pervasivo, senza un vero coinvolgimento dei consumatori.

«Il dibattito scientifico non è stato a tutto tondo. Gli esperti, una volta inseriti nei comitati di valutazione, ci si sono in un certo senso blindati, facendo passare l’idea di una scienza oggettiva e neutralista» dice Mariachiara Tallacchini, che all’Università Cattolica di Piacenza tiene un corso su scienza, tecnologia e diritto. «La questione non è sposare una causa, pro o contro ogm, ma trovare modi legittimi per prendere decisioni consapevoli sulla scienza nelle istituzioni democratiche».

Trasparenza e neutralità: questa la linea di difesa di Herman Koëter, direttore dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa), istituita nel 2002 dalla Commissione di Bruxelles per valutare rischio e sicurezza degli alimenti di origine animale e vegetale.

Nel maggio scorso l’Efsa ha difeso tenacemente i propri metodi e la propria imparzialità negli studi sugli organismi geneticamente modificati: 11 quelli finora vagliati da comitati di esperti di 13 stati membri. «La maggior parte degli studi è troppo breve e per lo più fatta con le aziende biotech» accusano a Greenpeace. E non sono i soli.

«Le ricerche, oggi disponibili, dicono che gli alimenti e le colture ogm più diffusi sono sostanzialmente equivalenti ai corrispettivi tradizionali, per composizione e nutrizione. E non hanno evidenziato rischi significativi per la salute degli animali. Ma occorre approfondire le ricerche per monitorare in modo costante l’effetto dell’impiego di ingredienti ogm nelle diete animali e la ricaduta sui prodotti da questi ottenuti, considerando lo sviluppo di alimenti ogm di nuova generazione e la peculiarità del nostro sistema agrozootecnico, nel rispetto del principio di precauzione» scrive Antonella Baldi, docente di medicina veterinaria all’Università di Milano.

In gran parte gli ogm in commercio non nutrono gli esseri umani; tra le colture transgeniche più diffuse al mondo ci sono soia, mais, colza e cotone, che finiscono per lo più nei mangimi degli allevamenti animali o nell’industria, riferisce un rapporto di Friends of the Earth international (Foei). Chi va a fare la spesa oggi sa che additivi o materie prime provenienti da piante transgeniche, sotto forma di amido di mais e di lecitina di soia, sono nei prodotti più svariati: marmellate, biscotti, budini, passati, merendine, cereali, maionese, yogurt, birra. E nel mangime di polli e maiali c’è soprattutto soia transgenica.

Anche se in Italia un decreto in vigore da 2 anni, voluto da Alemanno, non vieta le coltivazioni transgeniche (previste barriere di contenimento, come siepi, per evitare contaminazione tra campi tradizionali, biologici e ogm), nessuno da noi oggi coltiva mais e soia transgenici. E rari sono i campi di sperimentazione all’aperto. «Nel contesto italiano, fatto di piccoli appezzamenti, tranne forse la Pianura Padana, la coesistenza di campi gm e tradizionali non ha senso» commenta Giuseppe Pellegrini, docente di politica sociale all’Università di Padova, che a Observa coordina l’area di ricerca Scienza e cittadini. «Si dovrebbero fare distinzioni, valutando i diversi contesti agricoli». E sempre tenendo conto della tutela della biodiversità.

Il 90 per cento delle colture gm è concentrata in Usa, Argentina, Brasile, Canada, Uruguay, Paraguay. Nel 2006 l’Europa ha importato 24 milioni di tonnellate di soia gm (i più grandi produttori sono Usa, Argentina, Brasile). Per i mangimi proteici di animali d’allevamento, come la soia, dipendiamo quasi interamente dalle importazioni.

«E dall’anno prossimo si coltiverà negli Stati Uniti un altro tipo di soia gm, la Roundup2, con una maggiore efficienza produttiva rispetto a quella ora autorizzata per resistenza all’erbicida glifosato. E sarà anche la volta dell’Herculex, mais di seconda generazione. Entrambi già approvati dalla Fda» dice Gianfranco Piva, preside della facoltà di agraria all’Università Cattolica di Piacenza. «L’asincronia dei tempi di approvazione (in media 15 mesi in Usa e circa 2 anni e mezzo in Europa) rischia di mettere in crisi la nostra zootecnia. Se la nuova soia non si potrà importare, l’Europa non sarà in grado di far fronte a un deficit di circa 32 milioni di tonnellate: tanta la soia che abbiamo importato nel 2006».

A essere compromessi sarebbero gli allevamenti di suini, la cui produzione calerebbe, costringendoci a importare in modo massiccio. «Quadruplicate sarebbero le importazioni di carni di manzo, con aumento dei prezzi, e sarebbe ridotta del 44 per cento la produzione di carni avicole» calcola Lea Pallaroni, segretario dell’Assalzoo. «Per l’industria dei mangimi italiana è impossibile produrre senza ogm. La soluzione? Che l’Ue acceleri il processo di approvazione, così da procedere in parallelo tra produzione e commercializzazione».

Ciò dimostra quanto gli ogm condizionino ormai mercato e approvvigionamenti. Nel bene e nel male, visto che la quasi totalità dell’insulina usata al mondo dai diabetici è ora transgenica. Era il 1978 quando la Genentech produsse la prima insulina umana con batteri trans genici. Cinque anni dopo, Ralph Brinster dell’Università della Pennsylvania inserì in embrioni di topo geni umani per la sintesi dell’ormone della crescita. I topi si svilupparono con una rapidità più che doppia del normale. E trasmisero alla progenie i geni umani per l’ormone della crescita. Anche in maiali, mucche, polli, pesci si sono fatti esperimenti analoghi, con risultati controversi e perplessità da parte delle autorità regolatorie.

Agli inizi del 1984 in Gran Bretagna scienziati fusero cellule embrionali di capra e di pecora, trasferendo l’embrione che ne risultò in un animale che diede origine a una chimera: la «caprecora». Nel 1986 altri trasferirono il gene per l’emissione della luce nella lucciola nel codice genetico di una pianta di tabacco: le foglie della pianta divennero luminose. Oggi si inserisce il gene della fluorescenza, la green fluorescence protein (gfp), espressa nella medusa Aequorea victoria: usata come marcatore per verificare il trasferimento di un certo gene. La localizzazione della proteina studiata è rivelata in vivo e la si può seguire nel tempo.

Nei laboratori di biotecnologia le opportunità di ricombinazione genetica rese possibili dalla microiniezione di dna nel nucleo di una cellula embrionale, o in quello di una cellula della pelle, creando poi un embrione con la clonazione, sono pressoché illimitate. Non solo le piante, ma anche gli animali possono essere manipolati per scopi diversi. Purché producano proteine utili, siano più efficienti nella crescita, abbiano maggiore valore nutrizionale.

«Allo studio ci sono farmaci ricavati dal latte di capre, mucche e pecore, come antitrombina, eritropoietina, fattori di coagulazione del sangue. In fase di ricerca in Usa ci sono bovini transgenici dal cui siero viene prodotta albumina umana; e altri hanno un pezzo di dna umano per fare anticorpi umanizzati» elenca Cesare Galli, professore di veterinaria all’Università di Bologna.

Maiali transgenici, i cui tessuti e organi sono «umanizzati» per essere compatibili con l’uomo, sono allo studio per gli xenotrapianti. Negli Usa, in lista d’attesa per l’approvazione all’Fda ci sono maiali trasformati geneticamente per fornire Omega-3, gli acidi grassi polinsaturi del pesce buoni per il cuore; scrofe con un gene della mucca per far crescere la produzione del latte e favorire lo sviluppo dei maialini; salmoni con il gene dell’ormone della crescita per raddoppiarne lo sviluppo in un anno; e «spidergoat», capre con i geni della seta inseriti nel dna: dal latte si potrebbe filare seta cinque volte più forte dell’acciaio e due volte più resistente del Kevlar.

Grazie alle tecniche di manipolazione genetica, che attivano, annullano, aggiungono un gene o modificano il genoma, oggi è possibile creare topi mutanti programmati per sviluppare malattie dell’uomo di cui siano state identificate le proteine responsabili: diabete, aterosclerosi, Parkinson, Alzheimer, obesità, sclerosi laterale amiotrofica, insufficienze immunitarie, epilessia, cancro. Esistono ormai migliaia di ceppi di topi mutanti utilizzati nella ricerca.

Di recente all’Università del Kentucky si è ottenuto un topo modificato portatore del gene Par-4, che lo rende immune ai più aggressivi tumori. E se questo gene si potesse usare per evitare all’uomo di ammalarsi? Altri topi sono stati modificati perché producessero anticorpi monoclonali compatibili con l’uomo come arma contro il cancro.

Una nuova generazione di ogm, batteri come bioreattori, sta per essere creata per convertire materiali tossici, quali certi metalli inquinanti, in sostanze innocue. I silvicoltori cercano di isolare i geni che, inseriti negli alberi, possano farli crescere più in fretta e renderli più resistenti a caldo, freddo e siccità. E in futuro, riferisce Nature Biotechnology, ci saranno piante gm capaci di colpire il genoma degli insetti infestatori, interferendo con il loro rna, la molecola che nelle cellule funziona in sintonia con il dna. Tecnica che potrebbe sopperire al problema già presente della resistenza al Roundup, l’erbicida usato anche sul mais Bt, per Bacillus thuringiensis: contiene il gene la cui tossina uccide il bruco della piralide che si nutre della pianta.

Alle implicazioni su salute e biodiversità, manifestate di recente alla richiesta di autorizzazione per coltivare in Europa la patata Amflora, manipolata per fornire più amido e destinata a carta e tessuti, si aggiungono i timori del monopolio in atto: la Monsanto, o «Mutanto», come la chiamano, detiene il primato degli ogm. Più del 90 per cento dei semi venduti al mondo sono suoi, riferisce un’inchiesta di copertina di Business Week.

Se è vero che la scienza in sé non va temuta, e vanno colte le sue opportunità, è vero anche che il clima di monopolio e brevetti, da cui sono protette sementi e tecniche, allontana la promessa che gli ogm potrebbero contribuire a risolvere il problema della fame nel mondo. «Il fatto di potersi sfamare o meno» ha ricordato il Nobel per la pace Amartya Sen «dipende dalla povertà e non dalla mancanza di cibo».
GIANNA MILANO

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La fattoria dei cloni. Panorama 19 dicembre 2007.
Le quattro e 30 del pomeriggio di un giorno di dicembre. Mentre fuori il sole tramonta e le nuvole si accendono di rosso, nella stalla si ripetono gesti di sapiente quotidianità. Angelantonio Ferrara, in tuta verde e stivali, solleva con il forcone il fieno e gentilmente lo deposita nelle mangiatoie degli animali, cavalli e mucche. Gli trotterellano dietro Tigre e Brisa, due gattini che qualcuno ha abbandonato oltre il cancello del Laboratorio di tecnologie della riproduzione (Ltr) in una stradina di campagna alla periferia di Cremona. in questo edificio basso e anonimo, del Consorzio per l’incremento zootecnico (Ciz), che sono stati clonati finora 11 bovini (tre femmine e otto tori), 22 maiali e due cavalli.

Al laboratorio diretto da Cesare Galli, esperto in tecnologie della riproduzione e docente di veterinaria all’Università di Bologna, spettano due primati. Nel ”99 vi nacque Galileo, il primo toro clonato, oggi ha 8 anni e gode di ottima salute. E nel 2003 fu la volta di Prometea, cavalla di razza avelignese: è gravida e partorirà a marzo. L’annuncio su Nature della clonazione di Prometea fece il giro del mondo. Nessuno era mai riuscito a duplicare un cavallo, nonostante i ripetuti tentativi. «La cavalla che l’ha partorita, facendo da madre surrogata, è la stessa ad aver donato il materiale genetico: è il nucleo di una sua cellula somatica, trasferito in un ovocita, ad avere fatto di Prometea una sua copia esatta» spiega Galli.

Difficile distinguerla dalla madre, anche se le macchie bianche sulla fronte non sono proprio identiche: «Le cellule del pigmento non migrano mai in modo sovrapponibile».

Dopo che nel ”97 al Roslin Institute di Edimburgo la pecora Dolly, il primo mammifero a essere clonato, emise il suo belato, molti altri animali sono entrati nello zoo del futuro, grazie sempre alla tecnica del trasferimento di una cellula somatica in un ovocita. Dopo Dolly, in ordine cronologico, ci sono: topo, toro, maiale, capra, gaur, muflone, coniglio, gatto, mulo (stesso anno di Prometea), ratto, cane, bufalo indiano, furetto e lupo. Se le richieste di clonare il proprio gatto nascono da ragioni affettive, e possono sembrare un costoso capriccio (la californiana Genetic savings and clone dopo il primo successo nel 2002 lo propone online per 50 mila dollari), non così è per gli altri animali di cui si sono fatti dei cloni.

«In ambito zootecnico non è una pratica diffusa e vi si ricorre solo per animali che corrono magari il pericolo di estinzione o di grande pregio, come un toro per ottenere copie dei bovini migliori o un cavallo per mantenerne viva la sua linea di sangue. Anche perché la percentuale di animali nati da embrioni clonati che si sviluppano da cellule somatiche, della pelle, i fibroblasti, è 10 volte inferiore rispetto a quella normale. Ciò significa moltiplicare numeri, tentativi e costi» spiega Giovanna Lazzari, docente di veterinaria all’Università di Pisa e Bologna, che da anni lavora al fianco di Galli.

I cavalli maschi da competizione, da salto a ostacoli, sono di solito castroni. Lo stallone è più difficile da allenare e gestire nei comportamenti, talora bizzosi ed esuberanti. «Perciò spesso un cavallo ad alto livello sportivo è un animale castrato, e se diventa un grande campione e si vuole che la sua progenie sia perpetuata, lo si può fare ora per clonazione» spiega Lazzari, che all’Ltr unisce la gestione quotidiana del laboratorio alla ricerca sulle cellule staminali embrionali, la via maestra per fare animali geneticamente modificati.

Il secondo cavallo da loro clonato nel 2004, Pieraz, è la copia genetica di un campione purosangue arabo castrato. «Non è detto che il clone lo diventi a sua volta, dipende da chi lo alleva, da come lo si monta, da tanti fattori, ma nel caso non avesse le doti desiderate, potrebbe essere sempre usato per la riproduzione» spiega Galli.

Un percorso, quello della clonazione, per niente semplice e lineare. Se in cavalli e suini non pone problemi significativi, molte questioni aperte restano per i ruminanti, Dolly compresa, che vanno dall’alta percentuale di aborti all’elevata mortalità perinatale. Non si sa come mai, dice l’esperto, ma è così e spetta alla ricerca chiarirne i motivi. «Si è visto che le percentuali di successo variano da specie a specie. Nei ruminanti i problemi, più che la tecnica di clonazione in sé, riguardano la gravidanza e il parto: il vitello clonato può avere dimensioni maggiori del normale e rendere necessario il taglio cesareo. Anomalie della placenta, più sviluppata del solito, possono far aumentare il liquido amniotico e assieme le dimensioni del vitello» precisa Lazzari. Le due mucche clonate da Galli hanno già partorito e si sta ora analizzando il loro latte per verificare che sia uguale a quello degli animali non clonati: e non sembra si siano individuate differenze.

«Controlli che si eseguono perché per motivi di sicurezza alimentare, finché non si raccolgono esaurienti dati scientifici, si è decisa una moratoria volontaria. Non si usano prodotti ricavati da animali clonati, come il latte, e non si utilizza il seme dei tori clonati per produrre progenie destinata alla macellazione» continua Galli.

A che cosa serve creare copie clonate di un toro? Ogni anno in Italia, su alcuni milioni di maschi selezionati attraverso incroci, si scelgono gli esemplari migliori. «Da questi tori, possono essere 300, si ottiene seme che viene congelato e utilizzato per fecondare vacche o manze. Le femmine nate da questi accoppiamenti vengono allevate fino a farle partorire e verificarne la produzione di latte. Sono le prove di progenie, in gergo tecnico. Al termine della selezione, dei 300 tori di partenza ne restano da dieci a 30, che sono i miglioratori della razza» racconta Lazzari.

Nei bovini il miglioramento della razza è quindi continuo e la clonazione sembrerebbe avere un significato minore. Ma, chiarisce l’esperta, potrebbe non essere così. «Se alla fine si dovesse selezionare un toro con qualità eccezionali, il suo seme sarebbe talmente ricercato che un singolo esemplare non potrebbe sopperire fisiologicamente alle richieste. Allora ha senso clonarlo. una sorta di assicurazione sulla vita per quel toro». Dopo Galileo, il clone del bruno Zoldo, Galli ha ottenuto tre copie genetiche di un altro toro, il frisone Mtoto.

A uno dei banchi del laboratorio, dove lavorano 13 persone, Silvia Colleoni, giovane laureata in biotecnologie, con meticolosa precisione sta ricavando ovociti da una cinquantina di ovaie provenienti dai vicini macelli. Sono di maialine di 1 anno di età. «Da dieci ovaie ricaviamo una cinquantina di ovociti e di questi 40 sono usabili. Li si sceglie in base alle caratteristiche morfologiche: citoplasma omogeneo e cellule del cumulo compatte attorno all’ovocita. Dopo averli prelevati dai follicoli, li sposto in un medium di maturazione con fattori di crescita e li lascio lì per 40 ore a 38 gradi: corrispondono alla temperatura corporea di maiali, e pure di pecore e cavalli» riferisce Colleoni.

Con la tecnica del trasferimento del nucleo di una cellula adulta in un ovocita, attraverso una serie di delicati passaggi, si procede alla clonazione di maiali con caratteristiche genetiche specifiche. Gli embrioni così ottenuti sono trasferiti con laparotomia nell’utero di una madre incubatrice perché proseguano il loro sviluppo. Invece per bovini e cavalli il trasferimento degli embrioni si può fare per via vaginale.

«Questi maiali clonati fanno parte di un progetto di ricerca di 5 anni, partito nel 2006, che ha l’obiettivo di creare maiali i cui organi siano compatibili geneticamente per il trapianto. In una prima fase di sperimentazione dai maiali alle scimmie, i macachi rhesus, e poi, in prospettiva, dai maiali all’uomo» precisa Lazzari.

Gli xenotrapianti (così si chiamano i trapianti di organi tra specie diverse) potrebbero rispondere al numero crescente di persone in lista d’attesa per un organo: circa 45 mila attualmente nel mondo, secondo i dati del consorzio Xenome, creato dalla Commissione europea per portare la possibilità degli xenotrapianti più vicina al traguardo, affrontandone tutti i nodi etici, legali e di sicurezza.

«Uno dei problemi maggiori, oltre a eliminare il rischio di zoonosi, ossia di trasmettere virus estranei all’uomo, manipolando geneticamente il genoma suino, è quello di evitare il rigetto dell’organo» spiega Emanuele Cozzi, coordinatore del progetto Xenome e immunologo all’Università di Padova.

«Per ovviare al problema, che porta alla morte dell’organo attaccato dal sistema immunitario del ricevente, dopo il trapianto intraspecie, inseriamo nel nucleo della cellula somatica i geni, una decina quelli individuati finora, che possono evitare il rigetto acuto. Tutto ciò lo si fa prima di procedere alla clonazione» spiega Lazzari. «Da quell’unica cellula somatica manipolata geneticamente ne otteniamo una colonia: serve per verificare se il gene che ci interessa è dove noi vogliamo e funziona».

Per esserne proprio certi i ricercatori abbinano al gene da studiare quello per la fluorescenza, che fa in pratica da spia: se si vede il colore verde luminoso è la prova che la possibilità di espressione esiste e il gene è nel punto giusto.

Una lunga strada quella degli xenotrapianti. I primi test sull’uomo? «Forse tra vent’anni» risponde Galli. Il fermento e il rumore del circo mediatico che circonda il mondo della clonazione non sembrano intaccare la sua calma.

 di questi giorni la notizia che Ian Wilmut, il padre di Dolly, ha deciso di rinunciare alla tecnica del trasferimento nucleare per ottenere staminali embrionali, dopo che scienziati giapponesi hanno detto di aver riportato indietro le lancette dell’orologio biologico di quelle adulte. Di recente sembra sia stata aperta un’altra frontiera: ricercatori hanno ottenuto embrioni clonati da scimmie adulte e sono riusciti a ricavare cellule staminali da alcuni di essi, creando linee cellulari che hanno poi dato luogo a vari tessuti. Un susseguirsi di notizie e di grandi titoli sui giornali.

Il sole è tramontato, una leggera nebbia è scesa sulla campagna padana, e dalla stalla giungono i nitriti di Prometea. Forse vorrebbe farsi una galoppata.
GIANNA MILANO