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 2007  dicembre 15 Sabato calendario

DAL NOSTRO CORRISPONDENTE

LONDRA – Top story dei tg della sera: «L’accordo è fatto». Per tutto il giorno le tv inglesi avevano seguito il difficile vertice mondiale di Bali sul cambiamento climatico. Ma quando da Soho Square, sede della Football Association, è arrivato l’annuncio di Fabio Capello sulla panchina della nazionale (dal prossimo 7 gennaio, contratto fino al 2012 a 8,3 milioni di euro l’anno), non c’è stata altra top story.
«Un austero vincente a tutti i costi: ecco perché abbiamo bisogno di lui ora»: i giornali hanno occupato decine di pagine (sette solo il Times) in analisi e giochi di parole di benvenuto per il salvatore italiano. E siccome tutti hanno un soprannome nei titoli della stampa di Londra, Capello ha già il suo: Fab, che non sta solo per Fabio, ma nei sogni vale Fabulous.
Ha un soprannome anche il premier Gordon Brown: Gord, che è affettuoso e viene usato quando fa qualcosa che piace, come abbassare le tasse di successione. Gord ha dato un consiglio: «Capello deve allenare i giovani, come facciamo noi nel governo», con ministri under 40.
Certo, con tutti i problemi del governo di Sua Maestà, trovare tempo per parlare di football non sembrerebbe normale. Però la crisi della nazionale è diventata una sorta di psicodramma popolare, con ricadute anche sul modello economico del Regno.
Sappiamo tutti che il football è un’industria e anche grossa. Un miliardo di sterline in diritti tv, un altro miliardo in ingaggi ai calciatori. E la mancata partecipazione agli Europei del 2008 costerà all’economia inglese un paio di miliardi in spese mancate: dai gadget, alle scommesse, alle birre.
Per fortuna ci sono quattro squadre inglesi in Champions League. Ma sono davvero inglesi? L’Economist, settimanale- bibbia della business community globale, ha analizzato i tabellini delle qualificazioni e ha osservato che su 32 club europei c’erano in campo solo 10 giocatori inglesi, rispetto a 50 brasiliani e circa 30 italiani, e altrettanti francesi e spagnoli. C’erano anche più argentini, tedeschi, romeni, cechi, turchi, serbi e olandesi che inglesi.
L’Economist ha ricordato il
Wimbledon effect: laformula del tennis in base alla quale l’organizzazione tennistica più ricca al mondo ospita la competizione più prestigiosa, che non ha un vincitore britannico da trent’anni (Virginia Wade nel ’77).
Va bene per il tennis, non per il calcio. Nella patria del libero mercato si sono levate voci protezioniste, sul fronte dell’ingaggio di stranieri e della cessione dei club (9 sono in mano a proprietari russi o americani). L’Economist è spietato: «La verità è che per una nazione che ha inventato lo sport, i britannici non sono molto bravi a giocare». Il giornale invoca una scuola calcio nazionale, sul tipo di quella di Clairefontaine in Francia da cui è uscito Henry. Questo spiega il consiglio di Brown a Capello. E poi Fab deve vincere. A Soho Square ieri si scherzava sulla Italian mob:
la banda dei quattro italiani Baldini, Galbiati, Neri e Tancredi che segue il mister. Ora è una battuta; se le cose andassero male diventerebbe un’accusa. Wembley non è Wimbledon.
Guido Santevecchi