Valerio Cappelli, Corriere della Sera 15/12/2007, 15 dicembre 2007
ROMA – Giorgio Strehler morì nella notte di Natale di dieci anni fa. Il concerto che Riccardo Muti (stasera a Ravenna per Il ritorno di Don Calandrino di Cimarosa) terrà martedì al Valle di Roma con la sua Orchestra giovanile Cherubini, è il picco delle celebrazioni strehleriane
ROMA – Giorgio Strehler morì nella notte di Natale di dieci anni fa. Il concerto che Riccardo Muti (stasera a Ravenna per Il ritorno di Don Calandrino di Cimarosa) terrà martedì al Valle di Roma con la sua Orchestra giovanile Cherubini, è il picco delle celebrazioni strehleriane. In programma il Salve Regina di Porpora e lo Stabat Mater di Pergolesi, le voci di Barbara Frittoli e Monica Bacelli. «Ho pensato a due musiche del mondo napoletano di pura bellezza, niente di estroverso e virtuosistico, per un artista che in scena fu il re della bellezza». Insieme, Muti e Strehler realizzarono tre spettacoli alla Scala: nel 1981 Nozze di Figaro di Mozart, poi Don Giovanni (’87), infine Falstaff (’93) di Verdi. Come lavoravate, maestro Muti? «Era il culmine di quello che dovrebbe essere la collaborazione tra un direttore d’orchestra e un regista. C’è una foto per le Nozze che ci ritrae sul palco seduti a fianco. Prove musicali e di scena, un’integrazione totale, il regista che diventa direttore e viceversa. Era illuminante per i cantanti, che venivano istruiti dalle due figure per conseguire l’obiettivo finale. Questo non avviene più, è rarissimo». Il gemellaggio continuava alle prove, meticoloso Muti, meticoloso Strehler: «Era capace di insistere su una singola parola per venti minuti, si rabbuiava se una parrucca non era giusta, se un taglio di luce non era quello meditato. Mi ha aiutato a crescere. Ha insegnato al mondo il culto della bellezza con la B maiuscola. Noi oggi abbiamo spesso il culto della bruttezza, con regie d’Oltralpe tedesche pesanti, sempre grevi, tetre». Si riferisce al Wagner che ha aperto la Scala? «No, Chereau è francese e io mi riferivo ai registi tedeschi». Ma l’ha seguita in tv? «Non potevo, il 7 dicembre ho diretto un concerto a Monaco di Baviera, ero in tutt’altre faccende affaccendato». Quel giorno ha avuto un sapore particolare per lei? «Non me ne importava assolutamente nulla, anzi, in anni non sospetti ho sempre lanciato il sasso, sostenendo che il 7 dicembre come parata di lustrini, quella specie di esposizione delle medaglie che non c’entra niente con la musica, dev’essere abolito. Quel giorno aprirei la Scala al popolo di Milano. Io sto benissimo così, ho fatto il direttore musicale dal 1968, sono felice della mia libertà». Tornando a Strehler, cosa ha imparato da lui? «Tanto, anche cose che avevo in nuce. Diceva che, da buon napoletano, potevo fare l’attore o il regista. Forse perché sperava che io gli dicessi che lui poteva fare il direttore». Se chiude gli occhi e ripensa alla sua chioma d’argento... «Lo rivedo a casa sua in vestaglia mentre raccontava, recitando, i suoi pensieri sul Don Giovanni. Era uno spettacolo, si poteva restare delle ore ad ascoltarlo. Giorgio era sempre scontento. Alla fine della prova generale, a porte chiuse, aprii lo sportello del podio e mi avvicinai a lui in platea. Dondolando la testa, mi mise la mano sulla spalla, il volto melanconico, e sbottò: "Caro Riccardo, il Don Giovanni non l’abbiamo fatto". Poi si voltò come un demonio: "Ma non lo farà mai nessuno!". Ecco, questo era l’uomo e l’artista». Il ricordo più prezioso è una lettera. «Dopo il Falstaff ci incontrammo spesso per un’Aida.Mi portò un libro sul Nilo, c’erano delle foto di quel mondo, il deserto, il cielo. Voleva un’Aida semplice, fatta di nulla (senza gli ori e gli addobbi delle Aide da tappezzeria), dove le anime dei protagonisti erano esse protagoniste, solo il tempo e lo spazio sull’orizzonte infinito. Mi portò l’immagine del crepuscolo nella savana con un cielo che stava morendo su un blu tipico di Strehler, punteggiato da ombre nere. Una meraviglia. Due mesi prima di morire mi scrisse una dedica, "Per un’Aida che non riusciremo a fare mai". Chissà se era un presentimento della morte. Quando lo leggo, mi commuovo ancora adesso». Mai avuto diverbi? «Non sul fatto artistico. Certe volte si intrometteva sui cantanti e diventava un altro protagonista, sul podio era come lavorare a quattro braccia in aria, gli feci capire che due braccia bastavano». Visconti, Strehler, Ronconi: cosa ha significato l’avvento della regia nel teatro lirico? «Senza dimenticare i De Chirico e i Maccari invitati al Maggio Fiorentino da Francesco Siciliani, sono tre grandi nomi che ci hanno fatto entrare nella cultura europea (fino allora appannaggio di registi spagnoli, francesi, tedeschi e dell’Est), immettendo però la vena della genialità, della vivacità, della malinconia e del buon gusto italiano. Nella mia vita ho visitato opere con tanti registi importanti, negli anni ’70 al Maggio Fiorentino fui il primo a portare un regista come Vitez in Italia, e poi Jancso per l’Otello». L’addio di Strehler al Piccolo di Milano fu polemico, la sua storica collaboratrice Nina Vinchi disse che Milano lo trattò con rozzezza e denunciò i politici incompetenti. «Aveva ragione, lui diede tanto a Milano, la città fu poco generosa con lui». Ha lasciato eredi? «In molti si sono formati alla sua scuola, ma volava talmente alto. difficile raccontare cosa voleva dire stargli vicino alle prove dalle 9 di sera fino a mezzanotte, con la scena che a me sembrava illuminata meravigliosamente e invece c’era tanto da perfezionare. Alla fine si toccava la consapevolezza che alle 9 eri entrato da ignorante». Il suo capolavoro era Mozart? «La regia del Falstaff con me o del Simon Boccanegra con Abbado sono due capisaldi. Ma sì, Mozart era il suo zenith». L’uomo Strehler? «Umorale, geniale, aveva l’innocenza di un bambino, un lato fanciullesco. In fondo era un uomo fragile nei suoi leggendari furori. Ci siamo sempre voluti bene».