Franco Venturini, Corriere della Sera 15/12/2007, 15 dicembre 2007
Una missione civile europea andrà in Kosovo. I dissensi di alcuni governi della Ue sono stati rinviati a dopo la dichiarazione d’indipendenza, quando si dovrà decidere sui riconoscimenti
Una missione civile europea andrà in Kosovo. I dissensi di alcuni governi della Ue sono stati rinviati a dopo la dichiarazione d’indipendenza, quando si dovrà decidere sui riconoscimenti. Pristina viene invitata a comportarsi bene con le minoranze, e Belgrado incassa una tiepida disponibilità ad accelerare la sua marcia verso Bruxelles. Limitare i danni, insomma, può essere utile anche quando la partita è persa. Perché è indubbio che i Ventisette, dietro il generale compiacimento per l’unità mantenuta, abbiano dovuto ieri prendere atto proprio di questo: di una sconfitta strategica che la diplomazia può ormai solo alleviare evitando il peggio. Si vuole impedire che l’ultimo capitolo della disgregazione jugoslava porti a spargimenti di sangue. Si riconosce che la convivenza di serbi e albanesi nello stesso Stato è ormai impossibile. Non si vuole isolare Belgrado perché il suo contributo resta cruciale per la stabilità dei Balcani. Si afferma che quella del Kosovo è una «questione europea », dal momento che saranno gli europei a fornire denari e uomini per puntellare il nuovo Stato. Oggi non esiste una politica alternativa. Ma può bastare il pragmatismo del momento a dissimulare gli errori di ieri o non è piuttosto vero che l’Europa ha ancora una volta fallito, e clamorosamente, il suo test balcanico? Sulla via imboccata restano insidie pesanti. Il Kosovo dovrà rimanere sine die sotto tutela Nato e Ue. La Serbia che fu di Milosevic ha pesanti responsabilità nei confronti dei kosovari albanesi ma è escluso che accetti di buon grado la perdita delle sue radici culturali e religiose rinchiuse nei monasteri di Gracanica o di Decani. Come sempre nei Balcani il contagio è in agguato, e gli albanesi di Macedonia potrebbero imparare la lezione di Pristina al pari dei serbi di Bosnia. Soprattutto, la «questione europea» del Kosovo è diventata un oggetto del contendere tra Usa e Russia. L’America che guidò la guerra contro Milosevic ha sempre puntato all’indipendenza kosovara e lì ha costruito una grande base militare. Consulenti statunitensi aiutano a preparare la dichiarazione unilaterale, attesa entro la fine di febbraio. E Bush ha scelto il suo viaggio a Tirana per far capire che le preoccupazioni europee non lo sfiorano nemmeno. La Russia denuncia che l’Occidente si accinge a violare il diritto internazionale, minaccia di fare altrettanto in Abkhazia o in Ossezia del sud, annuncia il veto all’Onu, rafforza i suoi interessi in Serbia e incassa nuove munizioni da utilizzare contro lo «scudo» anti-balistico. E l’Europa? Cerca di non apparire come il classico vaso di coccio, ma lo è. Avrebbe potuto, quando ancora il tempo c’era, proporre una spartizione che entrambe le parti avrebbero finito per accettare. Avrebbe potuto prendere altre iniziative, se il mito ipocrita dell’immutabilità delle frontiere (e cos’altro sta per accadere?) fosse risultato troppo forte. Invece l’Europa ha guardato dall’altra parte. E la «questione europea », ora, è questione di altri. Con una spartizione che ci sarà comunque nelle zone serbe del nord, e con un tifo euro-americano per il serbo Tadic che rischia di rivelarsi controproducente. La partita è decisa, ora si tratta di vedere quanto dura sarà la sconfitta.