L’Espresso 20/12/2007, pag.74 Peter Gomez, 20 dicembre 2007
Operazione Lamberto. L’Espresso 20 dicembre 2007. Durante il parapiglia è rimasto immobile. E anche dopo non ha detto una parola
Operazione Lamberto. L’Espresso 20 dicembre 2007. Durante il parapiglia è rimasto immobile. E anche dopo non ha detto una parola. Così a ricostruire l’accaduto ci ha pensato Natale D’Amico, il più fedele tra i suoi quattro senatori. Per D’Amico non ci sono dubbi: sono stati i parlamentari della Lega ad aggredire Marcella Lucidi, il sottosegretario al ministero dell’Interno, uscita da Palazzo Madama in lacrime, la sera di giovedì 6 dicembre. A ridosso del voto di fiducia, non appena Lucidi si è messa a parlottare con Lamberto Dini, un gruppo di corpulenti leghisti di mezza età è corso giù dai banchi come un sol uomo. «Vada via, si sposti, non è possibile influenzare il voto in questo modo», hanno gridato prima di essere allontanati dai commessi. Lui, l’impeccabie Lambertow, l’uomo che si è fatto da sé lasciando Firenze, dove i genitori erano proprietari di un negozio di frutta e verdura, per andare a studiare negli Usa e diventare prima un funzionario della Banca Mondiale e poi direttore generale di Bankitalia, ministro e presidente del Consiglio, li ha guardati un po’ sorpreso. Lei, la bionda ex diessina, si è invece messa a piangere. In attesa che la moviola, reclamata dal capogruppo dei senatori di Forza Italia, Renato Schifani, stabilisca chi ha aggredito chi, i fotogrammi di quella serata mettono di cattivo umore soprattutto Dini. Fino alla scorsa settimana l’ex premier pensava di avercela fatta. Sua moglie, Donatella Pasquali - una ex modella diventata ricchissima impalmando sul finire degli anni Sessanta un imprenditore di trent’anni più vecchio di lei, Renato Zingone, ed ereditandone alla morte la fortuna - già si preparava a riaprire in grande stile il suo salotto. Nuovi abiti di Capucci, nuovi gioielli stile Crudelia Demon, nuovi personaggi da invitare, giusto per far schiattare d’invidia Franca Ciampi, la consorte dell’ex presidente della Repubblica, che per tutto il suo settennato non aveva voluto sapere di averla per casa. Lamberto, infatti, a 76 anni suonati, 13 dei quali trascorsi tra Palazzo Chigi e Palazzo Madama, si sentiva a un passo dal grande ritorno sulla scena politica. Dopo mesi di abboccamenti aveva finalmente in tasca un elenco di cinque nomi - due senatori forzisti, due della Margherita, più Luigi Pallaro, l’imprenditore italo-argentino approdato a Roma in rappresentanza degli italiani all’estero - che gli avrebbero permesso di costituire al Senato un suo gruppo parlamentare: i Liberal Democratici. Il resto, pensava, sarebbe stato in discesa. Con dieci senatori all’attivo (il numero minimo richiesto dal regolamento) i Libdem avrebbero cessato di essere un semplice sito Internet, messo in piedi dalla strana coppia Dini-Willer Bordon, e sarebbero diventati una sorta di mini partito cuscinetto capace di accogliere trasfughi del centrosinistra e del centrodestra. E invece niente da fare. Il caso Lucidi aveva convinto i suoi cinque compagni di strada a bloccare tutto. Troppa confusione, troppo clamore perché si potesse procedere subito con i cambi di casacca. Per il «governo delle larghe imprese», come disse proprio Dini con un memorabile lapsus già nel lontano dicembre 1995, si sarebbe dovuto attendere ancora un po’. Dodici anni fa l’obiettivo di Dini, allora premier di un governo tecnico, era quello di lasciare Palazzo Chigi all’amico Antonio Maccanico, ma a uccidere il progetto ci avevano pensato Alleanza nazionale e le inchieste giudiziarie. Prima Toghe Sporche, che aveva azzoppato il Cavaliere, poi quella sul banchiere italo-svizzero Francesco Pacini Battaglia, che aveva messo fuori gioco il numero uno delle Ferrovie, Lorenzo Necci, candidato a essere il superministro di quell’esecutivo. Oggi comunque Dini è intenzionato a ricominciare da lì. Rimesso indietro l’orologio della storia, l’ex leader di Rinnovamento Italiano lavora per il governissimo fianco a fianco con il grand commis Luigi Tivelli, ex consigliere proprio di Maccanico e autore del libro "Chi è Stato? Gli uomini che fanno funzionare l’Italia": un volume in cui vengono intervistati burocrati importanti come Gaetano Gifuni, Antonio Catricalà, Corrado Calabrò e persino il felpato Gianni Letta, ufficialmente politico, ma superburocrate per vocazione. Il vero esercito di Lamberto Dini, del resto, è proprio questo. Lui lo sa e durante la discussione della Finanziaria, per dare un segnale ai colonnelli, si è messo di traverso alle norme che imponevano un tetto di 275 mila euro l’anno agli stipendi dei manager pubblici. «Lo Stato non rinunci a una dirigenza pubblica forte. La sobrietà e l’efficacia e l’efficienza delle strutture pubbliche sono un bene prezioso», ha scritto su "Il Sole 24 Ore". Poi, con sobrietà, è riuscito a evitare che la legge fosse applicata nei confronti della Banca d’Italia, della Consob (presieduta da Lamberto Cardia, sottosegretario alla presidenza del Consiglio nei mesi del governo Dini) e delle altre authority. Così, per un paradosso della cronaca, Dini, l’ultimo baluardo del rigore economico contro la deriva a sinistra del governo Prodi, si è ritrovato intruppato nel partito della spesa. In pochi però ci hanno fatto caso. A destra la stampa berlusconiana, che per anni gli aveva fatto le pulci andando a scavare tra gli affari di famiglia e le fantascientifiche pseudorivelazioni di Igor Marini su una sua maxitangente da molte decine di miliardi di lire legata all’affaire Telekom Serbia, ha ripreso a lisciargli il pelo. Le interviste si sprecano e lui ha buon gioco a spiegare, come ha fatto dalle colonne di "Libero", che la pensione (tra Inps e Banca d’Italia, Dini già nel 2000 superava i 25 mila euro lordi al mese) basta appena per pagare l’affitto del suo appartamento in piazza Fontanella Borghese, lo stesso palazzo dove ha vissuto Guido Carli. Per questo pure il processo per bancarotta fraudolenta contro sua moglie Donatella, che in primo grado si è concluso il 3 dicembre con una condanna a 2 anni e 4 mesi cancellata dall’indulto, non fa paura. Certo, in altre epoche le ironie su quanto era accaduto in tribunale si sarebbero sprecate. Durante il dibattimento per il crac da 22 milioni di euro della Sidema, un’immobiliare controllata da due società off shore e fallita nel 2002, Donatella Dini ha fatto di tutto per sostenere che la società finita a carte quarantotto non era sua. «Sono solo la rappresentate di azionisti stranieri», ha detto più o meno la moglie dell’ex premier smentendo tonnellate di articoli che raccontavano la storia di una «busy bee» (l’ape laboriosa, come la chiama Lamberto) riuscita a moltiplicare gli averi del primo marito, rifugiandosi in Costa Rica e trasformando il Grupo Zeta di Zingone, in una sorta di multinazionale con 15mila dipendenti, impegnata nella grande distribuzione, nell’agricoltura, nelle costruzioni e nel turismo. E così il pm romano, Paolo Auriemma, si è ritrovato a dover dimostrare che lei della Sidema era l’amministratore di fatto. Non solo perché le decisioni venivano prese nei suoi uffici di piazza San Lorenzo in Lucina, situati nello stesso palazzo che ospita quelli dell’amico Giulio Andreotti, ma anche perché una serie di telefonate intercettate lasciavano pochi spazi ai dubbi: quelli della Sidema la chiamavano «la capa» e l’accusavano di tirare «in ballo la società più del necessario». Il risultato? Una condanna per aver falsificato i bilanci in modo che centinaia di ettari di terreni paludosi tra Riano Flaminio e Castelnuovo di Porto, a nord di Roma, figurassero edificabili e potessero essere esibiti come un patrimonio solido con cui tamponare i 37 miliardi di lire di debiti che già nel ’99 gravavano sulla società. Il tutto grazie a una semplice annotazione nella contabilità con cui si scriveva che il Comune di Castelnuovo di Porto «aveva adottato il piano particolareggiato» che avrebbe consentito la costruzione di migliaia di metri cubi di palazzi e che quindi il valore delle aree, fino a quel momento iscritte per 6 miliardi e 800 milioni di lire, doveva considerarsi quasi raddoppiato. Un giochetto che, per la Procura, fa il paio con la miracolosa rivalutazione di una seconda società, la Innovation, proprietaria di altri terreni su cui non si poteva costruire, che da un anno all’altro aveva visto lievitare il suo valore nei bilanci Sidema da 300 milioni di lire a 3 miliardi e 400 milioni. Anche per questo Donatella Dini oggi sembra più che mai lontana dall’Italia, il paese in cui di fatto vive, ma dove risulta impossidente: niente beni, niente cariche sociali, niente partecipazioni. Anche nella tenuta agricola di villa Torrigiani Roveta, a Scandicci, specializzata nella produzione di vini di qualità, lei non compare più da due anni ai vertici del consiglio di amministrazione. La tenuta è controllata come al solito da una società off shore, la Denali corporation limited, e pure i suoi due figli di primo letto, Cesare e Zingonia, di recente hanno abbandonato tutte le cariche. Zingonia, seguendo le orme materne, aspira del resto a fare la poetessa. E se mamma "Cipollina", il vezzeggiativo è sempre di Lamberto, ha scritto toccanti versi dal sapore autobiografico («La vita è come il mio tropico/ esuberante ed attraente/ ma sotto ogni foglia/ ci può essere un serpente»), Zingonia risponde da par suo con profonde riflessioni sull’eterno sentimento: «Amami, ti dico amami/ nel notturno abbraccio del silenzio/ amami e taci come fa l’amore». Cesare, il secondogenito, è più pragmatico. Dalla Toscana si è trasferito in Costarica, dove gestisce le aziende di famiglia. Inzialmente doveva occuparsi solo di supermercati (il gruppo Zeta ne possiede una decina), mentre Zingonia doveva seguire il comparto alimentare e agricolo. Poi però ha preso in mano un po’ tutto lui e adesso segue anche la costruzione di grandi centri residenziali e alberghieri. Mentre Lamberto, incurante dell’anagrafe, lavora per il proprio futuro politico, la famiglia Zingone sembra tornata ai nastri di partenza. A quel Centro America dove Renzo e Donatella si erano rifugiati negli anni Settanta, per timore dei comunisti e dei sequestri di persona, portando con sé venti miliardi di lire: una somma enorme per l’epoca. Era stato lì che Donatella, figlia di un medico della bassa lodigiana, dopo la morte del marito aveva cominciato a fare affari in prima persona, spesso assieme a Ezio Parapini, l’ex fattore di Zingone che ben presto sarebbe diventato come lui miliardario. Ed era stato in Messico che anni dopo, nel 1985, Lamberto e Donatella si erano sposati. Anche per lui era la seconda volta. Ma non c’era niente da fare: quando aveva incontrato Donatella a un ricevimento romano, era rimasto folgorato e l’aveva corteggiata per mesi arrivando a intonare per lei, durante lunghissime telefonate intercontinentali, romantiche canzoni di Ornella Vanoni. Perché Lamberto è fatto così: duro sui conti, inflessibile sulle pensioni (degli altri), ma sempre pronto alla lacrima appena si parla del passato. Insomma è uno a cui piace ricordare. Sarà per questo che oggi quello dei Libdem e del tanto agognato governissimo, più che un progetto, sembra essere un rimpianto. Di Peter Gomez