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 2007  dicembre 20 Giovedì calendario

2 ARTICOLI

Grande puffo grande tuffo. L’Espresso 20 dicembre 2007. Per Fausto Bertinotti, la presidenza della Camera è un elisir di giovinezza. Visto in tivù alla convention della Cosa Rossa, ha un volto disteso e paffuto. Un viso da puffo. Anzi, dato il peso politico, da Grande Puffo. Con quel facciotto ci ha offerto una frase storica: «Oggi è il giorno del Grande Tuffo. Per imparare a nuotare, bisogna gettarsi in acqua». Già, il Grande Tuffo del Grande Puffo. Ma la faccenda del puffo e del tuffo mi ricorda qualcosa di lontano e, insieme, di vicino. Vediamo un po’. Siamo a dieci anni fa, al 1° ottobre 1997. Il primo governo Prodi sta per morire. Chi ha deciso di ucciderlo è Rifondazione Comunista: lo appoggia dall’esterno, ma ha i voti decisivi. Quel giorno, Rc boccia la legge finanziaria del Professore. Il 7 ottobre il premier ulivista si appella a Bertinotti, il segretario di Rc, perché eviti la crisi. Non viene ascoltato. E il 9 ottobre Rc vota contro il governo che si dimette. A Montecitorio, qualche rifondarolo piange. Lucio Manisco, per esempio, o Nerio Nesi. Ma c’è pure chi ride. Stravaccato in Transatlantico, un sogghignante Oliviero Diliberto dice al pidiessino Antonio Soda: «Anto’, ho paura che la prossima volta il collegio di Reggio Emilia bassa non me lo date più!». A pugnalare Prodi è stato Bertinotti, su mandato di Armando Cossutta, presidente del partito. Il pomeriggio del 7 ottobre, prima del colpo di grazia al governo, Fausto ha letto all’Armando la parte più delicata del discorso. Lo si è visto grazie alla diretta tivù: il Parolaio recita sotto voce il compito scritto sui foglietti e l’Armando annuisce in silenzio, tamburellando con le dita sulla tavoletta dello scranno. Tutto finito? Per niente. Il primo segnale viene da Diliberto, costretto a disdire il pranzo di seconde nozze nel castello di Sorci, in quel di Anghiari. Glie l’ha ordinato Cossutta, il vero padrone del partito, quello che nel gennaio 1994 ha assunto Fausto per farne il segretario di Rc. D’improvviso, l’Armando ha cambiato programma. E va diffondendo il nuovo verbo: «Trattare si può e si deve!». accaduto che sul vertice di Rifondazione sta piovendo la reazione furiosa di tanti elettori e iscritti neo-comunisti. Tra giovedì 9 e venerdì 10, Cossutta viene sommerso da un’imprevista ondata di fax. E si spaventa. Persino "il Manifesto" gli si rivolta contro, roba da non credere. Si può deludere i compagni faxisti? Giammai. E così, il pomeriggio del 10, Cossutta riceve nel suo quartiere presidenziale un giornalista del "Corriere della sera", Massimo Gaggi. L’Armando lo accoglie con sussiegosa cortesia. Alle sue spalle campeggiano un ritratto di Marx con didascalie in cirillico e la vetusta bandiera rossa della sezione Pci di Sesto San Giovanni. Dapprima, Cossutta mitraglia con parole in apparenza d’acciaio il governo caduto e «la presenza sempre più soffocante di un sindacato collateralista». Poi, di colpo, si mette a concionare come un qualunque Vittorio Emanuele II. Gli mancano i baffoni a manubrio e il pizzone, ma la sostanza è la stessa. Dice: «Non sono insensibile all’allarme che c’è nel paese. E non sono di quelli che alzano le spalle davanti ai fax!». L’Armando si è pentito d’aver fatto la crisi, però Fausto no. Va di tivù in tivù, sempre più farraginato, attaccando la Cgil di Sergio Cofferati. Mostra i denti al "Costanzo Show", poi al "Porta a porta" di Vespa e infine al "Moby Dick" di Santoro. Ma Cossutta riesce a rammollirlo. Fausto comincia a cedere. Dice a Felice Saulino del "Corriere: «La nostra è soltanto legittima difesa». La sera di venerdì 10 ottobre, appena ventiquattro ore dopo la pugnalata, ecco un Bertinotti impassibile offrirsi alle telecamere del Tg1. Sta nel suo ufficio, protetto da un incolpevole Antonio Gramsci in fotografia. E al governo ucciso il giorno prima, offre un accordo di programma addirittura per un anno. Sembra un trucco da Prima Repubblica. Ma la verità è che Rifondazione teme l’azzardo di una nuova campagna elettorale. Tutti quei fax sono un grande uccello padulo che vola all’altezza ben nota. Domenica 12 ottobre, Fausto, in casual elegante, va alla Marcia della pace Perugia-Assisi. E si fa un bagno di fischi e di insulti. Comunque, i cossuttisti sono già al lavoro, con la tenacia delle vecchie talpe. Sempre strillando: «Trattare si può e si deve!». L’accordo matura sotto il sole malato di una legge per le 35 ore di lavoro, che Prodi promette a Rifondazione. La sera di lunedì 13 ottobre, il Professore lo annuncia uscendo dal Quirinale, dopo un colloquio con Oscar Luigi Scalfaro. Prodi non sembra per niente felice. Ha il viso pesto, le guancione cascanti da bulldog sfibrato. Accanto a lui, il sottosegretario Enrico Micheli mostra il pallore del mutuato in fila dal dentista. La stessa sera, a "Porta a Porta", Massimo D’Alema ha una faccia tutta l’opposto. sereno, quasi felice, mentre cucina il risotto in casa del segretario del sottosegretario Antonio Bargone. Poi nello studio esplode la telefonata di Fausto. Parla come se la crisi non ci fosse mai stata. Il birignao è compiaciuto. Il tono da narcisista astuto. Lui è già pronto a celebrare il proprio trionfo: la rinascita del governo. Cossutta lo bacerà in pubblico. E Diliberto proclamerà la «straordinaria abilità politica» del compagno segretario. Un anno esatto dopo, nell’ottobre 1998, la storia di ripete. Con qualche variante. Il governo Prodi cade e non risorge. L’Armando e Fausto si lasciano. Dal loro partito ne nascono due. A non cambiare sono gli slogan bertinottiani: il governo era centrista e il Prof un servo della Confindustria. Guarda caso, sono gli stessi di oggi, sempre contro Prodi. L’unica vera differenza è che adesso Rifondazione sta al palo: perde militanti e voti. Per questo il Grande Puffo esorta al Grande Tuffo. A gettarsi dal trampolino dovrebbero essere i quattro della Cosa Rossa. Ma non sembrano d’accordo su niente. Neppure se cantare o no "Bella ciao". Si romperanno la schiena, i nostri eroi? Speriamo di sì.
Giampaolo Pansa


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Sora Lella style. L’Espresso 20 dicembre 2007. Il riassunto del suo corredo estetico è una civetta. Rossa naturalmente, e riservata alle occasioni importanti: all’elezione del marito alla Camera, alla manifestazione di ottobre contro il precariato, al calendario di solidarietà per Telethon. Ma a inventariare il portagioie di Gabriella Faglio Bertinotti detta Lella, non si finirebbe più solo a contarne le spille: tuberose in scala reale, cammei, scudi, maggioloni, placche grosse come stetoscopi e per coccinella la madre di tutti i coleotteri. Fibule, spolette, losanghe degne di un tesoretto ottomano. Perché alla califfa Lella il power dressing piace da impazzire: a sottolineare agio e sicurezza, come ai tempi delle matrone di Dynasty. Alter ego da 45 anni di Fausto Bertinotti, i due procedono un cuor solo e un cachemire solo. Come il primo, che non si scorda mai: rosso naturalmente, comprato usato al mercato di via Sannio, a Roma. E riusato da tutti e due (alla fine il marito rinunciò: forte di seno, lei lo aveva irrimediabilmente sformato). E via così, un colpo dopo l’altro. Lui ha anticipato la velvet-tendenza? Dietro la rivoluzione di velluto c’era lei. Lui ha il vezzo dei portaocchiali? Guardate le catenelle antismemoratezza di lei: un trionfo di pietre semipreziose che sovrappone a strati di collane. Espressionismo applicato, anche se lei una volta ha detto di sé: «Sono un po’ naëf». Trucco pesante, cappellini alla Chorus Line, tessuti lucidi anzi traslucidi, dettagli animalier, capigliatura che dal biondo è passata al rosso ardente. Tutto sfoggiato con la nonchalance di chi porta un sombrero all’alba e si arrabbia pure se qualcuno strabuzza gli occhi. Si infuria spesso, la signora, con chi tenta di coglierla in flagrante a scialacquare l’ideale morigeratezza. Abiti firmati? «Compro dalla mia amica Francesca, che crea per i negozi». Si schermisce, si incavola, ci ricasca. E rieccola in prima fila, con la sua collezione di soprabiti, leggeri spolverini, massicci robe-manteaux, nostalgici redingote, bizzarri pastrani: alle sfilate dell’amica Valeria Marini; dall’altra amica Marina Ripa di Meana; a parlare di amore con Bruno Vespa. «Frivola io? un’accusa che mi ferisce», dice la signora, sprizzando luce. E simpatia.
Sabina Minardi