Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2007  dicembre 14 Venerdì calendario

Stufo delle troppe ipocrisie che sente in giro, e benché i presenti non abbiano in realtà capito se esprimesse un timore o piuttosto una speranza, l’altro giorno Walter Veltroni - replicando a Gianfranco Fini - l’ha detto nella maniera più cruda possibile: «Se non si fa la legge elettorale, non si faranno neanche le riforme

Stufo delle troppe ipocrisie che sente in giro, e benché i presenti non abbiano in realtà capito se esprimesse un timore o piuttosto una speranza, l’altro giorno Walter Veltroni - replicando a Gianfranco Fini - l’ha detto nella maniera più cruda possibile: «Se non si fa la legge elettorale, non si faranno neanche le riforme... Si andrà al referendum e ci sarà chi, non noi, aprirà la crisi». Dunque, in assenza di un accordo sul tipo di riforma elettorale da varare, il leader del Partito democratico sembra non vedere grandi possibilità di deviare da un percorso che gli pare, almeno per metà, già tracciato: senza intesa si va al referendum, e se si va al referendum «ci sarà chi aprirà la crisi». A quel punto, certo, maggioranza e opposizione si troveranno davanti a un bivio: accordarsi per un governo istituzionale che riesca dove ha fallito quello di Romano Prodi e vari la riforma elettorale oppure andare al voto anticipato con la legge attualmente in vigore (ipotesi che farebbe slittare il referendum alla primavera del 2009). In entrambi i casi, però, il governo del Professore sarebbe morto e sepolto. E dunque, come ormai si vede con sufficiente nettezza, altro che «stimolo al Parlamento» o «pungolo ai partiti perché si mettano d’accordo»: il referendum elettorale si sta trasformando in una mannaia pronta a calare sul governo e forse sull’intera legislatura. Da pungolo, insomma, a clava da brandire per questo o quello spericolato progetto politico. Ma è davvero così scontato che chi vuole la testa di Romano Prodi e forse la fine della legislatura potrà agitare la clava del referendum? La Corte Costituzionale ha davanti a sé ancora un mese per decidere circa l’ammissibilità di tutti o di alcuni dei tre quesiti referendari pendenti (in sintesi: abolizione del vincolo di coalizione tra i partiti, premio di maggioranza da attribuire alla coalizione vincente, possibilità di candidarsi in più circoscrizioni). La novità degli ultimi giorni è che il responso rischia di essere assai meno scontato di quel che sembrava fino a qualche settimana fa. Nei corridoi della Corte tira infatti un’arietta che, al momento, non lascia ipotizzare né un percorso tutto in discesa né una facile unanimità. Non è in discussione, naturalmente, il fatto che una legge elettorale possa esser sottoposta a referendum quanto - piuttosto e per fare un esempio - il carattere di immediata applicabilità della norma così come uscirebbe dal referendum. Si può certo andare a votare con una legge che, in teoria, assegna il 55 per cento dei seggi in Parlamento anche ad un partito che ottenesse solo il 15-20% dei voti: ma sarebbe razionale, prima ancora che costituzionale, una norma siffatta? I giudici ne stanno cominciando a discutere. E non si può dire, al momento, che le prime opinioni siano precisamente coincidenti. Non solo. Non è detto, infatti, che i tre relatori (Amirante, De Siervo e Silvestri) esprimano tutti parere favorevole circa i quesiti rispettivamente in esame. Potrebbero giudicarne ammissibili alcuni e magari altri no: con evidenti riflessi sul tipo di legge che verrebbe fuori dal referendum. E infine: il cosiddetto «porcellum», a causa delle novità che ha introdotto circa il «peso» del voto in Valle d’Aosta, fu oggetto di obiezioni di costituzionalità sollevate politicamente ma mai trasformate in eccezioni formalmente sottoposte all’Alta Corte. E’ possibile che queste eccezioni di costituzionalità vengano sollevate ora, magari addirittura da uno degli stessi giudici della Corte? E che ne sarebbe, a quel punto, del pronunciamento circa l’ammissibilità dei tre quesiti referendari? Come si vede, di scontato c’è poco o nulla. Senza contare il diluvio di pressioni politiche che, come al solito, sta cominciando a investire la Corte. E’ vero che i giudici ci sono in qualche modo abituati: ma la posta in palio (sopravvivenza del governo e forse della legislatura) stavolta è talmente alta da far facilmente ipotizzare un’intensità senza precedenti delle suddette pressioni. E qui, naturalmente, si torna alla politica e ad una totale confusione di posizioni e interessi. Berlusconi preferisce la testa di Prodi e quindi il referendum o una legge che renda più efficiente il sistema politico? E Veltroni a quali sacrifici è disponibile pur di mantenere in sella l’attuale esecutivo? Per non dire, naturalmente, dei partiti più piccoli: dalla Lega a Rifondazione, meglio le elezioni oppure un governo istituzionale o - ancora - un accordo così come predica il leader del Partito democratico? Impossibile dirlo. Quel che è chiaro è che, in materia di legge elettorale, quel po’ d’azzurro che si vedeva all’orizzonte va rapidamente ingombrandosi di nuvole. Si rischia, insomma, un micidiale cortocircuito tra referendum, riforma, elezioni, tenuta del governo e chi più ne ha più ne metta. E’ per questo che, con timore o con speranza, gli sguardi cominciano a volgersi verso la Corte Costituzionale: con l’auspicio o il terrore che sia essa, alla fine, a surrogare la politica e a decidere della vita o della morte del governo del professor Prodi... Stampa Articolo