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 2007  dicembre 14 Venerdì calendario

«L’Italia è un paese che ha saputo dare i natali a Renato Guttuso, Arnaldo Pomodoro, Fabrizio Plessi, Giuliano Vangi, Giacomo Manzù, quest’ultimo capace, a sua volta, di concepire la tomba di Guttuso, una lesione permanente alla retina e alla memoria estetica di chi ha avuto la sfortuna di vederla»

«L’Italia è un paese che ha saputo dare i natali a Renato Guttuso, Arnaldo Pomodoro, Fabrizio Plessi, Giuliano Vangi, Giacomo Manzù, quest’ultimo capace, a sua volta, di concepire la tomba di Guttuso, una lesione permanente alla retina e alla memoria estetica di chi ha avuto la sfortuna di vederla». Inizia così un capitoletto intitolato «Confusione di massa» di un libro divertente e terribilmente di parte che distrugge quasi tre generazioni di storia dell’arte per favorire la pittura naturalizzata americana che va da Duchamp all’Arte Povera. Ma, per capire, leggiamo qualche altro passo vagamente post-berlusconiano: «Guttuso e Manzù... entrambi hanno avuto il sostegno del vecchio Pci che, non volendo essere del tutto succube del realismo socialista sovietico, ha ripiegato sui due artisti più vicini al fumettismo socialista». Quanto a Pomodoro, «ha avuto una mezza idea qualche decennio fa e con quella si è iscritto all’associazione monumenti ai caduti di tutto il mondo, una specie di Rotary della scultura pubblica». Dunque il critico, Francesco Bonami, il realismo proprio non lo può vedere, né quello di Guttuso né quello di Manzù, colpa delle ideologie, come se Francis Bacon, che a Bonami giustamente interessa tanto, non avesse alle spalle una cupa esperienza esistenziale che gli fa amaramente interpretare il mondo. Lasciamo da parte la politica e cerchiamo di capire: a Bonami non piacciano i realisti, eppure gli piace, giustamente, Lucian Freud, berlinese divenuto inglese, la cui arte figurativa gli pare «reazionaria », eppure se Freud «non è un contemporaneo... non importa». Insomma il realismo è arte del passato, ma a volte si può accogliere nell’Olimpo. Bonami trincia giudizi durissimi, ad esempio su Picasso: l’autore di Guernica «era coinvolto superficialmente con la storia che raccontava, standosene comodo a Parigi, evitando di tornare a fare il guerrigliero in patria». Insomma, si dipingono capolavori se si combatte in prima linea? Eppure, si è detto, Guernica ha nuociuto al nazifascismo più di cento battaglie perdute. Ma tant’è. Bonami ha una personale idea della storia, gli piace giustamente l’Arte Povera e, però, non ama la Transavanguardia, la prima proposta da Germano Celant, la seconda da Achille Bonito Oliva, accusato di aver preferito «rimanere coi piedi a mollo nel Tevere» invece di andare a New York. Peccato che i due critici siano proprio quelli che a New York e negli Stati Uniti hanno presentato più mostre e hanno avuto un forte peso. Bonami troppo spesso tende alle esaltazioni astoriche: su Jeff Koons, che si rappresenta nell’amplesso con Ilona Staller, grande reinvenzione Pop ma una generazione dopo, scrive: «Koons fa la stessa cosa di Cézanne: trasforma in arte la realtà che gli sta intorno... il complicato mondo del consumo». Certo, molti giudizi positivi sono condivisibili, su Keith Haring e su Basquiat, su Warhol e su Duchamp, su Fontana e Christo, e ancora su Beuys e Rauschenberg, ma allora che cosa stupisce e cosa manca in questo libro che si propone di far capire al pubblico perché, davanti all’arte moderna, non si può dire «Lo potevo fare anch’io?»? Stupisce la mancanza di uno strumento critico fondamentale, l’esperienza storica. L’arte non è una corsa ad ostacoli dove si tagliano traguardi generazionali, l’arte non è un campionato mondiale dove ogni quattro anni si premia la squadra vittoriosa; chi ha fatto una Biennale come Bonami ed è consulente di musei statunitensi, prima di tutto dovrebbe sapere che nel contemporaneo s’intrecciano molte storie, legate a modelli diversi del passato, non solo Duchamp ma anche Courbet, non solo Warhol ma anche Picasso, non solo Cézanne ma anche Klee. In secondo luogo l’ottica dalla quale si osserva l’arte nel mondo non può essere solo il mercato newyorkese, le sue gallerie, i suoi valori. Così Renato Guttuso è al culmine di una grande civiltà europea del realismo, esattamente come Fontana dell’astrazione informale, o come Arnaldo Pomodoro che ha saputo unire informale e minimal art, il mito di Brancusi e quello dei costruttivisti russi. A dire il vero, il critico usa definizioni non sempre ironiche ma a volte becere degli artisti, e questo è spiacevole, ma comunque dovrebbe essere informato. Non gli accade sempre. Sentite cosa scrive sulla fotografia: «Di acqua sotto i ponti ne è passata tanta da quando, intorno al 1820, la fotografia, con il signor Daguerre, fece il suo ingresso tra le invenzioni che avrebbero trasformato il mondo ». Peccato, attorno al 1824-26 era Niepce che sperimentava a Gras la fotografia. Daguerre arriva solo nel 1839 a brevettare il dagherrotipo offerto poi dalla Francia a tutto il mondo. Insomma, un poco meno di approssimazione sarebbe utile. Anche da un critico «americano».