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 2007  dicembre 14 Venerdì calendario

DAL NOSTRO INVIATO

KABUL – Se la ricorda bene Hamidullah Qasimi quella maledetta mattina del 30 maggio. «Sono uscito di casa in auto, come sempre alle otto e mezzo. I sequestratori mi attendevano a poche centinaia di metri. Mi sono aggrappato al volante. E loro hanno sparato con una pistola alla gamba destra. Ricordo benissimo di aver sentito il proiettile trapassare l’osso all’altezza del polpaccio. E di aver pensato, vedendo il foro nell’asfalto ai miei piedi, che almeno era uscito e ci sarebbero stati meno rischi di infezione». Sono trascorsi già sei mesi. Eppure il film di quei momenti resta nitido nella sua memoria, dilatato dai 14 giorni in mano ai suoi rapitori: ferito, curato solo con un fazzoletto sporco stretto attorno alla gamba, qualche pastiglia di antibiotico, acqua fangosa da bere, legato con manette di plastica. Sino alla liberazione, il 13 giugno, dopo aver pagato un milione di dollari.
Ci sono migliaia di casi simili in tutto il Paese. Perché da un paio d’anni il fenomeno rapimenti è diventato la piaga nazionale. Poco conosciuto e poco denunciato, con un’intensità in drammatica crescita che ricorda molto da vicino il connubio esplosivo tra criminalità, guerriglia e terrorismo che mise rapidamente in ginocchio l’Iraq dopo la guerra del 2003. Qualche volta le vittime restano uccise per le torture subite e di loro non si sa più nulla. capitato di bambini di sei o sette anni a cui sono state tagliate le dita per fare pressione sui genitori. Da Helmand a Kandahar nel Sud, alla zona di Herat controllata dal contingente italiano a est (qui si parla di «epidemia» dei rapimenti), a Mazar El Sharif nel Nord, ma soprattutto nella regione di Kabul, dove sono concentrati i capitali della ricostruzione. Quando chiedi ai portavoce Nato- Isaf, ti rispondono di esserne al corrente, ma che «è compito delle forze di sicurezza afghane porvi rimedio». I media locali più volte hanno però ribadito che esercito e polizia sono impotenti, se non addirittura complici dei banditi. Il governo punta il dito contro le società di «contractors » locali coinvolte nel «business» sicurezza. Secondo lo «Swisspeace institute», tra le 90 più note solo 35 sono registrate. In novembre la polizia ne ha chiuse 22 per ordine di Hamid Karzai, che le vuole abolire del tutto.
Hamidullah con i tre fratelli dirige la «Qasimi Group», una delle più note società edili di Kabul. Creata nel 1973, danneggiata dalla guerra civile tra mujaheddin nei primi anni Novanta, praticamente chiusa durante la teocrazia talebana tra il 1996 e il 2001, la «Qasimi» si era rilanciata con il boom degli investimenti e la febbre della ricostruzione tra il 2002 e 2005. Fatturati in crescita, guadagni dichiarati nel solo 2004 pari a oltre 700.000 dollari. Tanto per un Paese dove il reddito mensile medio sfiora appena i 70. Ma ora hanno deciso di emigrare. «Basta, troppo pericoloso! Ho solo 37 anni, posso rifarmi un’esistenza altrove. Meglio povero, ma vivo». Umiliati, frustrati dalla sensazione di impotenza. Lui e tanti altri imprenditori sono giunti a chiedere pubblicamente la pena di morte per i rapitori. «Queste sono tutte famiglie che vogliono andarsene, come noi pensano al Dubai», racconta Hamidullah snocciolando una lunga lista di nomi. «Ma è un gran peccato. Noi incarnavamo la speranza. La sola fuga all’estero degli imprenditori che conosco causerà la perdita di oltre 250.000 posti lavoro. Non si può vivere solo delle donazioni dall’estero. Come potrà esistere un nuovo Afghanistan?».