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 2007  dicembre 20 Giovedì calendario

Soldi e Letteratura. Vanity Fair, giovedì 20 dicembre In letteratura il denaro è ancora un tabù, l’ho scoperto a mie spese a Berlino

Soldi e Letteratura. Vanity Fair, giovedì 20 dicembre In letteratura il denaro è ancora un tabù, l’ho scoperto a mie spese a Berlino. Partecipavo a una tavola rotonda organizzata dall’Istituto Italiano di Cultura, nell’occasione del centenario della nascita di Alberto Moravia, e mi ero permesso di dire che uno degli aspetti per me più nuovi e interessanti dello scrittore romano era il suo modo smaliziato di parlare di soldi, tanto nella vita quanto nelle opere. Il discorso è parso irriverente soprattutto a un amico del maestro, che ha replicato: "Non mi risulta che Alberto fosse assetato di denaro". Ho pensato subito di aver sbagliato, il classico passo falso che porta a un equivoco a cui è difficile rimediare. Il fatto che Gli indifferenti (1929), il primo e forse più bel romanzo di Moravia, si aprisse con una discussione su un’ipoteca, il fatto che ricordassi una serie innumerevole di lettere dove Moravia descrive nel dettaglio la sua condizione finanziaria, il fatto che l’amico del maestro appartenesse alla minuscola fetta di umanità che non ha bisogno di guadagnarsi da vivere, tutti questi fatti, piuttosto confortanti per il mio punto di vista, non mi hanno confortato affatto. Avevo compiuto un passo falso, parlare di denaro in letteratura è come bestemmiare in chiesa, di questo mi ero convinto andandomene. Così sono rimasto doppiamente stupito quando, la sera successiva, rispondendo a una classe di studenti di italianistica della Humboldt-Universität, mi sono sentito chiedere: "Scusi, ma quali sono i suoi introiti?". Lì, in un’aula universitaria di filologia romanza, dove avevamo appena discusso di personaggi e strutture narrative, era risuonata la parola "introiti", e nessun fulmine era sceso a incenerirci, e le facce di tutti erano rimaste impassibili, comprese quelle dei due professori che mi avevano invitato e della ragazza interrogante che ora aspettava che rispondessi a quella che, a quanto pareva, lì, a Berlino, era la domanda più naturale del mondo. Di colpo ho avuto l’impressione di aver intuito una cosa. La concezione aristocratica che grava ancora sulla cultura in Italia, quella che impedisce che si pronunci la parola "denaro" accanto alla parola "arte", è di fatto l’altra faccia del modo oscuro con cui i miei, i vostri, i nostri soldi, vengono maneggiati nel nostro Paese, è l’altra faccia della speculazione finanziaria che i redditi – gli "introiti" – di ognuno di noi stanno subendo in questi anni. Questa intuizione, che forse può sembrarvi bizzarra – "Dove sta il nesso?", vi chiederete – mi si è chiarita osservando con maggior attenzione i prezzi tedeschi e confrontandoli con quelli di casa. A Berlino – credo a causa della morale protestante – hanno un rapporto trasparente col denaro, il che permette sia di parlarne in una discussione di letteratura, sia di pagare 17 euro una corsa in taxi dall’aeroporto al centro città. Noi a Roma siamo più eleganti, non ci abbasseremmo mai alla prosaicità borghese di un romanzo sui soldi – sto pensando al grande Money di Martin Amis – ma in compenso, quella stessa corsa in taxi la paghiamo 40 euro. Perché i tassisti romani chiedono più del doppio (e annunciano aumenti)? Semplice, perché a Roma un appartamento in affitto non costa meno di 1.500 euro al mese (trilocale sulla Cassia), mentre a Berlino un appartamento di 150 metri quadri (a Wittenbergplatz: come dire a Prati a Roma, o a Cadorna a Milano), costa 700 euro. E come mai chi dà una casa in affitto a Roma chiede più del doppio di chi la dà in affitto a Berlino? Semplice: perché a Roma una pizza e una birra costano 20 euro (a Milano anche 30), mentre a Berlino un brunch a buffet a Kollwitzplatz, uno dei quartieri più alla moda della capitale, costa 8 euro (senza fregatura "turistica"). E come mai il pizzaiolo italiano si fa pagare più del doppio del ristoratore tedesco? Eccetera eccetera. Ho girato per giorni confrontando i prezzi, come un vero soldatino del Codacons. Un biglietto dei mezzi pubblici valido per due ore – treni, metro, tram, autobus, compreso lo shuttle per raggiungere l’aeroporto – 2,10 euro. Due splendidi krapfen appena sfornati e due cappuccini, al tavolo, in un caffè a Kreuzberg, 2,20 euro. Che cosa è successo ai nostri prezzi? Possibile che il petrolio a cento dollari al barile pesi solo da noi? Invece di vedersi bloccare le città dai manifestanti che chiedono un legittimo aumento degli stipendi, il governo non potrebbe imporre una riduzione dei prezzi? No, rispondono tutti gli economisti in coro, siamo in un Paese liberista, il mercato si regola da sé. Sarà, io so solo che con i miei "introiti" – circa cinquantamila euro lordi all’anno – a Berlino vivrei senza dover pensare al denaro, come voleva l’amico ricco di Moravia, mentre a Roma arrivo addirittura a farci un articolo. Alla sorella Adriana, Moravia scrive: "Per mandare avanti la barca sono diventato redattore cinematografico di Epoca. Inoltre farò la corrispondenza dei lettori in Film, un settimanale cinematografico che uscirà in marzo. Brutti mestieri, ma con la professione di scrittore è impossibile vivere". In un’altra lettera, questa volta all’editore Valentino Bompiani: "Debbo dirti che al solito mi trovo in critiche condizioni finanziarie. Guadagno in tutto 70 mila lire al mese, trenta del Tempo e quaranta tue, e proprio non ce la faccio". Moravia, lo scrittore borghese che ha scritto il romanzo più spietato con i borghesi, parla con disinvoltura delle sue necessità materiali. Sarà anzi per sanare queste necessità che continuerà per tutta la vita a immergersi negli odori del mondo, affrontando – come un nobile letterato non avrebbe dovuto – i posti, le situazioni, i problemi della vita reale da cui le sue opere di finzione hanno sempre tratto alimento. Ci vuole coraggio per far girare una storia attorno a una questione di denaro – ancora Gli indifferenti ”, per il senso comune questo è un tema che tarpa le ali della letteratura, eppure la vita è piena di storie simili, come può uno scrittore voltarsi altrove? Per noi italiani la parola soldi è sconveniente, anche chi è costretto a pronunciarla fa di tutto per mitigarne la volgarità. una cosa che mi ha fatto notare mia madre, la volta che ha litigato con un bancario che allo sportello le ha detto: "Bene signora, allora mettiamo da parte un po’ di soldini?". Soldini, li aveva chiamati. E anche Antonella Clerici proprio in questo momento alla Tv sta dicendo: "Eh, abbiamo regalato un bel po’ di soldini!". Soldini, un diminutivo paternalistico, quasi un vezzeggiativo. Un po’ come dire la pupù. Ma i soldi non sono la pupù, non puzzano se uno li usa onestamente. Puzzano se uno ti manda a saldare "di là" e poi la segretaria ti chiede se per caso ti serve la fattura. Di solito si tratta di un professionista affermato, quasi sempre un collezionista d’arte – "Ah, l’arte!, l’arte", dice sospirando – e, ça va sans dire, un amante delle belle lettere – "Ah, la letteratura!, la letteratura!". Ti manda a "saldare", cioè a versare quella cosa immonda nelle mani già sporche e inevitabilmente compromesse della segretaria, due povere mani bianche usate a mo’ di collettore. E quella cosa immonda, grazie al suo essere innominabile e invisibile – che cosa c’è di più invisibile di un pagamento in nero? ”, scivolerà dal tuo conto al suo senza lasciare traccia, e gli permetterà di comprare altri quadri preziosi e di commuoversi ancora per la purezza dell’arte e, anche, sì, della letteratura, che qualche scrittore sciagurato ha osato insozzare con argomenti bassi e triviali, come... – Oddio lo sto per dire di nuovo – il denaro.  nello studio di quel professionista che i soldi puzzano, è nelle banche che bisogna chiamarli soldini. Nei libri di Moravia non puzzano affatto né puzzano nell’aula universitaria dove mi è stato chiesto quanto guadagno. A Berlino come a Roma, gli euro servono a vivere, e a Berlino come a Roma, senza la vita la letteratura è dattilografia, puro esercizio di polpastrelli. Mauro Covacich