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 2007  dicembre 10 Lunedì calendario

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Caccia al tesoro sotto i ghiacci. Il Sole 24 Ore 10 dicembre 2007. Tra gli effetti dello scioglimento sempre più rapido dei ghiacci della calotta artica c’è quello imprevisto – ma certo non sgradito ai 5 Paesi (Usa, Russia, Norvegia, Danimarca e Canada) che si affacciano sul Mar Glaciale Artico – dell’accesso, molto più facile di quanto ipotizzato fino a pochi anni fa, alle risorse racchiuse in quella vasta regione, che si annunciano decisamente cospicue.
Un segnale preciso di quest’accelerazione l’ha dato all’inizio dell’agosto scorso l’impresa dei due minisottomarini russi, che hanno deposto sul fondale del Polo Nord, a oltre 4.200 metri di profondità, una bandiera russa quale concreto segno di rivendicazione delle acque che separano la costa lungo il Mar Artico fino appunto al Polo, ben oltre il limite convenzionale delle 200 miglia entro cui si estende la Zona d’interesse economico esclusivo, rivendicando un’ipotetica continuità con la cosiddetta "dorsale di Lomonosov" che parte dall’arcipelago artico della Severnaja Zemlia. Aspirazione analoga (pur senza dispiegamento di vistose spedizioni sottomarine) avanza la Danimarca, sostenendo che la dorsale di Lomonosov termina (o nasce...) di fronte alla Groenlandia.
La pretesa russa è nettamente respinta dagli altri Paesi rivieraschi, ma da tempo è in atto una serie di rivendicazioni (vedi scheda in basso) che contrappone perfino alleati della Nato, come Usa, Canada e Danimarca. Al di là del valore strategico (peraltro enorme) del controllo di nuove rotte commerciali che ridurrebbero di 4mila km la rotta a Nord del continente americano (Passaggio a Nord-Ovest) e di ben 8mila la rotta a Nord dell’Eurasia (Passaggio a Nord-Est), a far gola sono le ricchezze minerarie che la regione artica racchiude. Un’analisi pubblicata nel 2005 dal celebre quotidiano russo Pravda valuta il loro valore globale in 1.500-2.000 miliardi di dollari.
Di quali ricchezze si tratta? In cima a tutte certamente vi sono gli idrocarburi. La stima della loro consistenza è molto erratica, variando da 10 fino a 100 miliardi di barili di petrolio equivalenti, anche a causa dell’ovvia mancanza finora di qualunque prospezione effettiva. Secondo una stima di massima dell’autorevole Usgs (United States Geological Survey), i fondali del Mare Artico potrebbero contenere fino al 25% delle risorse mondiali d’idrocarburi ancora da scoprire.
La cartina a lato mostra come la concentrazione di queste ricchezze petrolifere sia preponderante lungo le coste russe. E in effetti appare Mosca la più interessata al loro sviluppo. Già oggi le regioni di terraferma poste lungo il Mar Artico contengono il 91% delle sue riserve di gas e oltre l’80% di quelle di petrolio. Il solo giacimento di Shtokman, al largo di Murmansk, il maggiore al mondo off-shore, racchiude 3.200 miliardi di m?, oltre a 41 milioni di tonnellate di condensati. A queste risorse occorre poi sommare le enormi quantità d’idrati di gas, una combinazione di acqua e metano gelati di cui sono ricchi i fondali marini, specie quelli artici, e il permafrost costiero dell’Artico.
Sempre secondo l’Usgs, i fondali artici conterrebbero anche notevoli quantità di noduli di stagno, manganese, nickel, oltre a platino e diamanti. Senza dimenticare, grazie al progressivo riscaldamento del Mare Artico, crescenti risorse ittiche, che trovano un habitat ideale in acque finora rimaste purissime.
Prima di tentare di mettere le mani su questi tesori, resta però da risolvere un quesito decisivo: a chi appartengono? O meglio: a chi appartengono le acque sui cui fondali giacciono? Le accennate rivendicazioni territoriali in atto testimoniano l’incertezza in cui versa la materia, considerato che la presenza di una sorta di "terra composta di ghiacci" che parevano immutabili, come di fatto è stato finora l’Oceano Artico, aveva di fatto impedito, sotto il profilo giuridico, l’equiparazione al mare, cui peraltro è assimilabile.
Se dunque di mare si tratta (e si tratterà sempre più, con il rapido scioglimento della banchisa), il solo regime giudico applicabile è quello della cosidetta "legge del mare", che prende nome dalla convenzione di Montego Bay del dicembre 1982, ratificata finora da 155 Paesi (ma non dagli Usa, che la ritengono troppo limitativa della libertà di navigazione), in base a cui il limite massimo esercitabile degli interessi degli Stati rivieraschi è quello delle 200 miglia nautiche (371 km), su cui si estendono i diritti economici esclusivi. Sarebbero quindi da rigettare le pretese russe (e anche quelle più pacate danesi) di portare fino al Polo la rivendicazione di sovranità, tirando in ballo la "dorsale di Lomonosov". Se così fosse, assisteremo nei prossimi decenni a una delle più colossali "corse all’oro" della Storia. Quasi certamente l’ultima.
Paolo Migliavacca


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IL SOLE 24 ORE 10/12/2007
Paolo Migliavacca
Sette Paesi per una calotta: fanno gola minerali e pesca. Tutto tranquillo sul fronte del Polo Sud. O almeno così dovrebbe essere. Il Trattato sull’Antartide, firmato a Washington il 1° dicembre 1959 e ratificato finora da una cinquantina di Paesi, bandisce infatti «tutti i provvedimenti di carattere militare, come l’insediamento di basi, la costruzione di fortificazioni, manovre ed esperimenti di armi di qualsiasi genere», affinchè «l’Antartide sia riservata per sempre solo ad attività pacifiche e non divenga né il teatro né il motivo di vertenze internazionali». Per una migliore difesa del continente è stato però necessario completare il Trattato con il Protocollo di Madrid del 1991 (entrato in vigore nel 1998), il cui articolo 7 vieta per 50 anni ogni ricerca o estrazione mineraria e richiede una "valutazione d’impatto ambientale" per qualsiasi attività condotta nel continente.
Eppure, cacciata in modo solenne dall’uscio ogni volontà di mettere le mani sulle ricchezze contenute nell’Antartide per preservarne intatto l’ambiente ed evitare ogni motivo di tensione internazionale, la tentazione si riaffaccia alla finestra, sotto forma di rivendicazioni di sovranità di alcuni Paesi che vantano diritti storici su parti del continente. Cosa peraltro legittimata dall’articolo 4 del Trattato, che salvaguarda «i diritti di sovranità territoriale oppure le rivendicazione di sovranità... in precedenza fatte valere» dai firmatari, precostituendo un’ideale base giuridica per accampare prerogative che consentano in ogni momento di avviare attività economiche denunciando il Protocollo aggiuntivo.
 infatti quanto meno curioso reclamare il controllo territoriale esclusivo di aree delle quali non si può fare un uso economico. L’ultima iniziativa in materia l’ha comunque effettuata la Gran Bretagna, annunciando in ottobre la volontà di raddoppiare a 400 miglia la propria area d’interesse economico che, sfortunatamente, coincide in modo quasi esatto con quelle rivendicate da Cile e Argentina. Pronta la reazione di questi due Paesi, che hanno annunciato varie misure di rafforzamento della loro presenza nel settore.
Si dice che alla base della mossa di Londra ci sia, more solito, il petrolio. Esso quasi certamente – al di là delle roboanti ragioni di principio avanzate dalla parti - fu già la causa scatenante della guerra delle Falkland del 1982, poiché la piattaforma continentale che separa l’arcipelago (e la Georgia australe) dall’Argentina e dall’Antartide, secondo diverse stime, racchiuderebbe da 20 a 50 miliardi di barili di greggio. Con i corsi alla soglia dei 100 dollari al barile, la tentazione di accaparrarsi tali risorse si ripresenta quindi prepotente. Perché gli indizi della presenza di petrolio (e forse ancor più di gas) sembrano numerosi anche altrove. Così come quelli di carbone (numerosi i ritrovamenti di formazioni di 35-55 milioni di anni fa, di bassa qualità, specie sui monti Transantartici e su quelli del Pincipe Carlo), di cromo (nel massiccio di Dufek), nickel, zinco, manganese, stagno, molibdeno, piombo, cobalto, titanio, oro, argento, platino e uranio. Senza contare la presenza di noduli metallici. E questo nonostante sia stata "mappato" appena l’1% di superficie, quella libera dai ghiacci.
A queste risorse occorre aggiungere il potenziale ittico (altissimo, considerato che il divieto generale di pesca ne ha fatto un rifugio ideale per molte specie) e, connesso, quello del krill, piccoli crostacei che formano banchi di cibo primario per pesci o mammiferi marini più grandi, che sono pescati come cibo per acquacoltura: le acque antartiche ne conterrebbero mezzo miliardo di tonnellate, a fronte di 250mila tonnellate annue di catture. Ma è soprattutto la risorsa meno ricercata la vera ricchezza del "continente bianco": i suoi 29 km? di ghiacci rappresentano infatti ben il 90% del totale planetario e oltre il 60% di tutta l’acqua dolce disponibile sulla terra. Un’ottima ragione per cercare di accaparrarsi tale ricchezza.