La Stampa 10/12/2007, pagg.14-15 SYLVIE LASSERRE, 10 dicembre 2007
Il ”Tibet islamico” incubo di Pechino. La Stampa 10 dicembre 2007. URUMQI. Finché resto in Cina non parlo! Spero che tu mi capisca
Il ”Tibet islamico” incubo di Pechino. La Stampa 10 dicembre 2007. URUMQI. Finché resto in Cina non parlo! Spero che tu mi capisca... Tu ripartirai, io devo rimanere qui». Erkin, 25 anni, vive a Kashgar, mitica città sulla via della Seta. Sa che parlare della condizione degli Uiguri, la minoranza cui appartiene, può farlo finire in prigione. Inframmezza il discorso con lunghe pause di silenzio. Ha paura. «Tu vivi all’estero, sai meglio di me... la situazione politica... la colonizzazione...». Allude alla censura dei mass media in Cina. Sono entrata in Cina dal Kazakistan, all’estremo Occidente del paese. La frontiera è segnata da un affluente del fiume Ili. Da una parte e dall’altra si stende a perdita d’occhio la steppa. Siamo ai confini dell’Asia centrale, in una regione un tempo chiamata Turkestan orientale o Turkestan cinese. A Sud, i contrafforti dei Monti Celesti. Pechino è a cinquemila chilometri. L’autostrada è nuova fiammante, stridente contrasto con le strade sterrate e abbandonate del Kazakhstan. E’ la Cina! Qui vivono nove milioni di Uiguri, popolo turcofono e musulmano, la minoranza più numerosa della Cina. La regione autonoma di Xinjiang (RAOX) si estende dal Pakistan alla Mongolia su un territorio quasi desertico e grande due volte la Francia. Dal 1949, anno in cui sono stati occupati dalla Cina comunista, gli Uiguri assistono impotenti alla colonizzazione cinese. Il fenomeno si è amplificato in modo allarmante da una decina di anni, conseguenza diretta del boom economico della Cina che sta cambiando a vista d’occhio. Oggi i cinesi rappresentano più della metà della popolazione dello Xinjiang, più o meno dieci milioni. Erano solo trecentomila - il quattro per cento - negli Anni Cinquanta. Ogni velleità separatista è punita con la pena di morte. Va precisato che il sottosuolo dello Xinjiang rigurgita di petrolio, una manna per l’impero in pieno sviluppo. La parola Turkestan - Paese dei turchi - è bandita. «Non possiamo più pronunciare questo nome. E’ pericoloso. Può portarti in prigione» mi confidano. La cultura uigura sta per scomparire per assimilazione forzata. La mia prima tappa è la città di Ghuldja - Yining in cinese - tristemente celebre per i massacri del 1997. Inutile chiedere: nessuno sa nulla, nessuno ne parla... Tursun, 28 anni, è più chiacchierone di Erkin: «Ho sentito dire che molti giovani sono morti in un solo giorno. Quanti non so. Ogni famiglia ha versato lacrime di sangue. Il figlio è morto, il figlio del vicino è morto, il figlio del vicino del vicino è morto...». Sai perché?. «No». Allora glielo racconto io: il 5 febbraio 1997 alcuni giovani uiguri manifestavano per l’uguaglianza di diritti sul lavoro. In pace, senza armi. Ma tutto degenera quando arriva la polizia: ricordo ancora le parole esatte della dissidente uigura Rebiya Kadeer, esiliata negli Stati Uniti: «Li hanno presi, buttati sui camion e portati tutti in uno stadio dove li hanno denudati e colpiti con i cannoni ad acqua. La temperatura era di meno 15 gradi». Poi iniziarono gli arresti. I soldati rastrellano i villaggi e prendono tutti i giovani uomini: ottantamila arresti per 15mila manifestanti, centinaia di uccisi e altri condannati a morte. Oggi a Ghuldja tutto sembra calmo: la città sembra uguale a tutte le altre megalopoli cinesi ultramoderne. Alla periferia c’è la città uigura dove si vive ancora tradizionalmente: mi sento trasportata per magia in Asia centrale, il bazar brulica di gente, i bambini giocano per strada, ci si prepara alla festa della fine del Ramadan. Dei fatti del 1997 non si parla: «Meglio dimenticare - dicono - se parli a qualcuno diventa pericoloso anche per lui». Sembra che i massacri abbiamo dato un colpo fatale agli uiguri. Andiamo a Urumqi, la capitale: «L’autostrada ha tre anni» mi dice l’autista: alcuni tronconi sono ancora incompleti, gli operai cinesi lavorano giorno e notte. Sulla cima di una collinetta, un piccolo tempio buddista: «L’hanno costruito cinque anni fa. Lo detesto» dice l’autista. Tursun lontano da orecchie indiscrete si sfoga: «Oggi ci sono più cinesi che uiguri in Xinjiang. I cinesi controllano tutto: negli uffici, nell’amministrazione, il numero uno è cinese, il numero due uiguro. Hanno il potere: tutti i lavori buoni sono per loro. Gli investimenti sono cinesi». Gli uiguri sono al 60 per cento disoccupati. «E’ difficile trovare lavoro, ti chiedono subito: ”Istruzione cinese o uigura”? Uigura. ”La richiameremo”. Il livello di cinese non è mai abbastanza buono. Se vai alla scuola cinese trovi un lavoro ma dimentichi la tua lingua materna e la tua cultura. Se vai alla scuola uigura conservi la tua cultura ma non trovi lavoro. All’università, dal 2002 in poi, le lezioni sono solo in cinese». Tursun, dopo l’università, ha trovato lavoro in un hotel: «Facevo il facchino. Poi dopo un anno sono diventato portiere. A volte gli impiegati della reception mi chiamavano quando arrivava un cliente straniero: non sapevano parlare inglese e avevano bisogno di me. Ho resistito un anno». La gran parte degli uiguri non studia più, tanto è inutile. Il centro commerciale Rebiya Kadeer, dal nome dell’oppositrice cui apparteneva, è stato espropriato e venduto all’asta. La fama della Kadeer è grande tra gli uiguri: è un modello di successo e generosità. Madre di undici figli, diventata ricchissima e membro del parlamento cinese, si è consacrata al suo popolo. Fino al momento dell’arresto aiutava i poveri, finanziava le scuole. Nessuno qui sa dove sia finita, ci sono ancora dei parenti ma il mio interprete rifiuta di incontrarli. «E’ pericoloso». Poi c’è la questione dei passaporti: Erkin doveva partire e tentare la sorte all’estero ma non può più lasciare la Cina. Tursun spiega: «Recentemente è venuta la polizia a casa mia per ritirarmi il passaporto. Ho chiesto: perché? Ho diritto ad averlo. Mi hanno risposto: e noi abbiamo diritto a ritirartelo. Ho fatto finta di non trovarlo ma poi ho saputo che me l’hanno annullato». Una studentessa aggiunge: «Quest’estate hanno ritirato tutti i passaporti. Hanno detto che era per registrarli ma non li abbiamo più visti». Un amico uiguro, Alim, mi racconta che nel settembre 2006 seimila pellegrini musulmani volevano andare in Arabia Saudita: «Hanno aspettato due mesi in Pakistan un visto, invano. Dopo minacce, proteste, appelli delle ambasciate, sono stati ritirati loro i i passaporti. Si vogliono evitare a tutti i costi raggruppramenti di uiguri lontano da Pechino. Soprattutto con l’avvicinarsi dei giochi olimpici». Il fratello di Alim è fuggito dalla Cina dove era perseguitato per aver fatto un pellegrinaggio alla Mecca. Ma la religione non è la sola a subire restrizioni severe in Xinjiang: anche le tradizioni sono viste con molto sospetto e spesso proibite. In un villaggio incontro un anziano sciamano, un «bakshi», rinomato in tutta la zona di Kashgar. «Quattro anni fa sono venuti i rappresentanti del governo, mi hanno ordinato di radermi la barba e mi hanno tolto il mio tamburello: ballavo intorno al fuoco suonando il tamburello, era così che curavo de persone». Un modo di curare che in Turkestan risale alla notte dei tempi. «Adesso curo al modo cinese, uso un bastone e brucio dei pezzi di carta». Torniamo a Urumqi. Adil Hoshur è un funambolo famoso in tutta la Cina: il «darwaz» è una pratica millenaria presso gli uiguri. Nel febbraio 2004, anno in cui Adil Hoshur è andato a fare un tour in Canada, sette artisti su dieci sono scappati e hanno chiesto asilo politico. Lui ha preferito tornare. «E’ il Paese dei miei antenati: pratichiamo il darwaz di padre in figlio da cinquecento anni». Con lui lavora Abdusattar Ghojabdulla, 18 anni, campione del mondo: ha vinto il titolo a maggio in Corea del Sud. «Ho fatto un chilometro sulla corda in 15 minuti. Il secondo, un giapponese, ce ne ha messi trenta - ride -. Poi mi sono accorto che tutti gli spettatori erano cinesi. Solo i servi sono uiguri. E mi sono sentito triste». Mi tornano in mente le parole di Rebiya Kadeer: «Viviamo in un campo di concentramento a cielo aperto». SYLVIE LASSERRE