La Stampa 10/12/2007, pag.22 VINCENZO TESSANDORI, 10 dicembre 2007
Quando al cinema si stava in piedi. La Stampa 10 dicembre 2007. TORINO. Quando c’era lui, caro lei, il mondo era un altra cosa
Quando al cinema si stava in piedi. La Stampa 10 dicembre 2007. TORINO. Quando c’era lui, caro lei, il mondo era un altra cosa. Lui, il «tuo» cinema, quello che avevi eletto come meta settimanale, luogo di divertimento, magari di meditazione. Uno solo, era una questione di fedeltà. Che emozione, al momento del buio in sala. E del silenzio. Tutti in trepida attesa perché un film non era solo un passatempo, ma un rito, aveva il gusto di un avvenimento in cui ti sentivi coinvolto. Oggi, forse, non più. E che importanza poteva avere se solo un duro lavoro di gomiti ti consentiva la conquista di un posto né troppo vicino né troppo lontano dallo schermo, non a destra e neppure a sinistra. Se poi andava male, pazienza, si restava in piedi. Non c’era molto da scegliere, in quel cinematografo di allora, secondo Millennio, nessuna offerta diversificata, come oggi nelle multisale. Che per mille motivi, su tutti quello economico, hanno soppiantato i tanti «cinema paradiso». Arduo un censimento, ma un tentativo è lecito. Una mostra sull’«Architettura dei cinema in Italia», curata dalla professoressa Maria Adriana Giusti, del Politecnico di Torino, e dalla dottoressa Susanna Caccia, si apre oggi nella sala delle Colonne del Castello del Valentino. Parla delle celebri vittime che si contano da Nord a Sud e da occidente a oriente. Vent’anni fa ad Aosta, chiuse l’Italia, tutto marmi e stucchi: oggi è un ristorante cinese. A Torino in un palazzo Art Deco anni venti, a due passi dalla stazione di Porta Nuova, la mattina di domenica 10 marzo 1980 un rogo divorò il cinema Corso. Al suo posto, oggi, una banca. Con impazienza è attesa la riapertura del Lux, come multisala, in galleria San Federico. Lo Statuto, famoso non lo era mai stato ma lo divenne tragicamente il pomeriggio del 13 febbraio 1983 quando il fumo di un incendio uccise 64 persone. L’epidemia letale, scoppiata intorno all’ultimo ventennio del secolo, si è diffusa rapidamente. A Milano, una caserma della Guardia di Finanza rimpiazza il Tonale, fiaccato dal peso di bilanci insopportabili, e un enorme negozio di abbigliamento occupa il salone del Corso. Ultima vittima, il Brera: chiuderà la notte della Befana. Foghèra a Venezia è il titolo di un pamphlet scritto nel 2001 da Gian Franco Spinazzi. Racconta un’antica abitudine molto particolare. «Far foghèra», vuol dire scolarsi un film tre, magari quattro volte di fila. Oltre che pomiciare, quanti «tosi» e «tose» hanno tifato per Ben Hur o per i protagonisti della Battaglia di Algeri nelle poltrone del cinema San Marco, alle spalle della Piazza? Una ventina d’anni fa, il passo d’addio. Lui, però, non era atteso da un destino plebeo: sui due piani di quel palazzone, ora la libreria Mondadori per Voi, e una caffetteria. E negli anni, in laguna, 25 sale hanno chiuso i battenti. Dicono che il Fulgor di Rimini boccheggi ma, di fronte al business, pare importar poco che Federico Fellini l’abbia immortalato in Amarcord. Esiste un progetto di recupero che si affiderebbe a Dante Ferretti, lo scenografo del «maestro». Vedremo. Forse. Città che vai, cine che non trovi più. Via XX settembre, a Genova, rischia di avere i segni della malinconia. Nei primi anni novanta un grande magazzino ha sloggiato il cinema Teatro Margherita, eppure, allora, la gente faceva la fila per bere in cinemascope La conquista del West di John Ford. Si sa, la decimazione è cieca. Un negozio di abbigliamento ha sostituito il Moderno e questa estate è toccata all’Orfeo, che ai tempi d’oro si chiamava Universale. Neppure le multisale, quelle piccole almeno, hanno garanzia di sopravvivenza. I due locali del Nosadella, a Bologna zona università, erano luogo d’incontro per gli amanti della «programmazione di qualità». Tutto sbarrato, da alcuni mesi. Accanto alla Loggia del grano, dietro Palazzo Vecchio, l’elegante cupola apribile del Capitol e l’eleganza delle sale disegnate da Nallo Baroni nel ”54 erano una calamita irresistibile. Al suo posto, l’Uffizi Center: libreria, bar, self service, uffici e negozi. A dispetto dell’antico nome grande come un transatlantico, Rex, l’Apollo di via Nazionale, vicino alla stazione era di seconda visione. Non grande cinema, ma un cinema grande, il maggiore della città che in certe domeniche si riempiva come un uovo: per Tamburi lontani, con Gary Cooper, quel pomeriggio di primavera del ”52, il pubblico tracimava nei corridoi, tutti insieme avvolti dal denso fumo delle sigarette. Nella Spoon River della celluloide il Gambrinus, è ultimo travolto da un crollo rovinoso. Di incassi. Quando arrivavano Alberto, Marcello, Vittorio o Gina la folla ondeggiava e si spintonava per catturare una battuta, un sorriso. Allora all’Etoile di via del Corso, a Roma, potevi sognare: chissà oggi, trasformato in spazio espositivo. Anche l’America in Trastevere era un luogo fatato: ora raccolgono firme per tentarne il recupero. L’Alcione di Napoli si è fatto da parte per un supermercato, e arresi si sono pure il Santa Lucia e il Fiamma. Da 30 anni a Bari ci si balocca col restauro del Margherita, sul lungomare. E a Palermo? Tre anni fa il Bingo l’ha avuta vinta sul Nazionale e il cinema Finocchiaro ha chiuso in mesta bellezza con Per sesso o per amore? Che tristezza: ma sì!, forse il mondo era un altra cosa, quando c’era lui. Una mostra sull’«Architettura dei cinema in Italia», curata dalla professoressa Maria Adriana Giusti, del Politecnico di Torino, e dalla dottoressa Susanna Caccia, si apre oggi nella sala delle Colonne del Castello del Valentino, sede della facoltà di Architettura. L’esposizione racconta delle celebri vittime della crisi del cinema, antichi «cinematografi» chiusi e nei quali adesso ci sono ristoranti cinesi o megastore di abbigliamento. VINCENZO TESSANDORI