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 2007  dicembre 13 Giovedì calendario

Hanno impiegato undici anni per organizzarsi e decidere di firmare un delitto politico con la stella a cinque punte e la vecchia sigla brigatista

Hanno impiegato undici anni per organizzarsi e decidere di firmare un delitto politico con la stella a cinque punte e la vecchia sigla brigatista. Era il 1999, e gli epigoni di Renato Curcio e Mario Moretti uccisero Massimo D’Antona. Tre anni dopo ci hanno riprovato, con l’omicidio di Marco Biagi nel 2002. Ma non è bastato. Nella Storia delle Brigate rosse che il professor Marco Clementi ha appena mandato in libreria con l’editore Odradek – molto approfondita e dal taglio quasi «scientifico», intenzionalmente privo di valutazioni morali – quelle drammatiche gesta compaiono solo di sfuggita. Relegate in una nota di cinque righe, a pagina 342, comprensiva dei nomi di assassini e assassinati. Non certo per dimenticanza, bensì come conseguenza della tesi di fondo: la parabola del gruppo che più di ogni altro ha segnato la storia del terrorismo in Italia s’è chiusa definitivamente nel 1988, quando i militanti che avevano sparato gli ultimi proiettili sul senatore democristiano Roberto Ruffilli furono arrestati, e quelli già carcerati dichiararono la fine della guerra perduta con lo Stato. Ammissione per molti versi tardiva, poiché già da qualche anno le azioni e i lutti brigatisti apparivano colpi di coda decisamente «fuori contesto». Secondo Clementi, che in passato ha studiato la fase più incisiva dell’attacco sferrato dalle Br con La pazzia di Aldo Moro, il percorso del maggiore partito armato italiano «coincide perfettamente con l’ascesa e la caduta dei movimenti: dal "biennio rosso" 1968-69 alla sconfitta dei "35 giorni" alla Fiat, nel 1980». Dopo di allora, «il rovesciamento del clima sociale degli anni Ottanta mise a nudo le debolezze del "progetto politico" brigatista, facendone rapidamente invecchiare il linguaggio». I morti che le Br hanno continuato a seminare fino al delitto Ruffilli «erano la rappresentazione di una conclamata solitudine politica, e non più la sanguinosa capacità di incidere sugli equilibri generali del Paese, come era invece avvenuto nel corso degli anni Settanta». Logico quindi che gli epigoni comparsi nel ’99 siano collocati fuori dalla storia e dalla Storia delle Br, nonostante in carcere qualcuno ne abbia rivendicato gli omicidi e i killer di D’Antona e Biagi (arrestati nel 2003) continuino a lanciare proclami di guerra. «Il gruppo formatosi intorno a Nadia Desdemona Lioce – si legge nella nota che li riguarda – tentò di riaprire la logica della lotta armata percorrendo una via già abbandonata alla fine degli anni Ottanta dalle Br-Pcc storiche, ossia colpendo due uomini impegnati nella riforma del mondo del lavoro». Tentativo evidentemente fallito, per lo storico; col sottinteso che quel fenomeno ha rappresentato, e forse potrà rappresentare in futuro, solo un problema di polizia. Al contrario delle Br originarie, che invece, com’è spiegato nel volume, ricco di riferimenti a 18 anni di aggrovigliati e truculenti documenti brigatisti, cambiarono il corso degli eventi nel dopoguerra italiano. Il sequestro e l’omicidio di Moro rappresentano il punto più significativo dei mutamenti di rotta imposti dalla «politica armata » delle Br, che rimasero spiazzate dall’irremovibile fermezza dello Stato: i partiti «spostarono il piano dello scontro, e le Br furono messe di fronte a un’equazione che non furono in grado di risolvere». Dopo l’uccisione del presidente democristiano ci fu il massimo storico di adesioni al progetto brigatista, e nel 1979 il maggior numero di attentati, ma già dal 1980 cominciò la parabola discendente. Alla crisi dovuta ai «pentiti» e alla controffensiva «militare» dello Stato si aggiunse quella politica, con la «marcia dei quarantamila» alla Fiat, che sancì la sconfitta della lotta operaia e molte altre conseguenze. Tra le quali, secondo Clementi, l’incapacità delle Br di analizzare e cogliere l’autentico significato di quell’evento. Le divisioni che dall’81 in poi hanno attraversato le «vecchie» Brigate rosse hanno portato alla fine della storia, all’interno della quale si può ritrovare anche una piccola «rivelazione». Ora che è morto, gli ex brigatisti che all’epoca furono suoi compagni non hanno più remore ad ammettere che Giuliano Naria – l’extraparlamentare arrestato nel 1976, il quale scelse di difendersi negando gli addebiti – fece effettivamente parte delle Br. Clementi lo sottolinea e attribuisce a questo particolare un’importanza «fondamentale per la storia della colonna genovese delle Br e dello stesso Naria». Che fu accusato anche di triplice omicidio e poi prosciolto, dopo un lungo periodo di carcerazione preventiva. In favore dell’innocenza di Naria si mobilitò a suo tempo, tra molte polemiche, una nutrita schiera di militanti e intellettuali. MIRAFIORI Un’immagine della vertenza Fiat del 1980, che si concluse con la famosa «marcia dei quarantamila» e la sconfitta del sindacato. Secondo lo studioso Marco Clementi, quella vicenda segnò un mutamento del clima sociale e politico che condusse anche al declino irreversibile delle Brigate rosse La rivelazione Giuliano Naria faceva parte della colonna genovese Molti intellettuali giurarono sulla sua innocenza