La Repubblica 10/12/2007, pagg.27-28-29 CARLO BONINI, 10 dicembre 2007
Un esercito a metà. La Repubblica 10 dicembre 2007. ROMA. Non siamo un popolo di guerrieri, né di tradizioni marziali
Un esercito a metà. La Repubblica 10 dicembre 2007. ROMA. Non siamo un popolo di guerrieri, né di tradizioni marziali. E dove pure facciamo la guerra e contiamo i nostri morti - come in Afghanistan, dove abbiamo appena assunto per i prossimi otto mesi il comando della missione Isaf per l´intera area di Kabul - pur di non chiamarla con il suo nome ci rifugiamo in anglismi che definiscono il fine ed elidono il mezzo (peace enforcing, peace keeping). Oggi, a tre anni dalla fine della leva, un ragazzo di 18 anni non è mediamente in grado di distinguere tra un capitano e un colonnello, ma le code negli uffici di reclutamento si allungano. Perché un´uniforme e 20 mila euro lordi, per uno o quattro anni, sono certamente meglio di una chiamata dell´agenzia interinale, di sei mesi dentro e fuori da un call center. I nostri fanti, marinai, aviatori sono in giro in 19 Paesi nel mondo, mentre le caserme e le infrastrutture lungo la vecchia "soglia di Gorizia" (il confine su cui negli anni del mondo bipolare erano ammassati i tre quarti del nostro dispositivo militare), sono il rugginoso ricordo di un´altra era. Vent´anni fa, il Paese contava mezzo milione di uomini in armi. Oggi, poco più di 190 mila. E dunque: che forze armate sono diventate le nostre? Si può cominciare dalla lingua che parlano, dal futuro che le attende. Negli ultimi tre concorsi per volontari a ferma prolungata, su poco più di 56 mila posti disponibili, le domande sono state 208 mila. Nel 1998 (quando venne avviato il reclutamento su base professionale), le domande (10.432) coprivano di poco le disponibilità (10.251). L´anagrafe di chi ce l´ha fatta documenta che il nostro è un esercito di ragazzi e ragazze del Mezzogiorno. Sette arruolati su dieci di esercito, marina e aviazione provengono da Campania, Basilicata, Molise, Puglia, Calabria, Sicilia e Sardegna. Solo uno dalle regioni del nord, due da quelle del centro. L´80% ha un diploma di studi superiori. La percentuale di laureati è impercettibile. Alimentano un corpo ancora impiombato, nei numeri e nella progressione delle carriere, nella transizione dalla leva al professionismo. La pancia delle nostre forze armate continua infatti a essere fatta di marescialli. Spesso troppo vecchi per i teatri operativi. Troppo giovani per la pensione o per una progressione di carriera in una catena gerarchica che non saprebbe che farsene di migliaia di nuovi ufficiali per altro già in esubero. I marescialli sono 60 mila, un terzo dell´intera forza, per lo più concentrati nell´aeronautica. Il doppio di quanti l´attuale modello di difesa prevede debbano essere di qui ai prossimi dieci anni. Fuori dalle caserme, il mercato del lavoro non è in grado, né evidentemente intende riassorbirli. Vuoi per età, vuoi per qualità della formazione. L´Italia non è certamente l´America (dove, nel 2007, la spesa militare ha raggiunto i 532,8 miliardi di dollari), ma un esempio può aiutare a capire la separatezza culturale e professionale in cui continuano a vivere le nostre forze armate. Nel 2001, nel cratere di ground zero, il premio Pulitzer va a un cronista del New York Times che si chiama Cristopher Chivers. Nel 1991, quell´uomo ha vestito l´uniforme dei marines nella prima guerra del Golfo. E negli anni che sono seguiti, l´esercito ha avuto il tempo di farlo studiare nella prestigiosa università di Columbia, a New York. Bene, a palazzo Baracchini, oggi, non hanno una sola storia da raccontare che somigli anche soltanto un po´ a quella di un Cristopher Chivers, né fondi per assicurare formazioni universitarie alla Bocconi di Milano o alla Luiss di Roma. Ma, quel che è peggio, fanno fatica persino a ricollocare un maresciallo in un´altra pubblica amministrazione, pure contigua, come quella dell´Interno. Solo qualche generale può trovare un posto al sole una volta dismessa l´uniforme. Quasi sempre nei board di aziende di armamenti. Per il resto, si può solo invecchiare da soldati. Magari, come i nostri veterani di Afghanistan e Iraq, coltivando la speranza di un´altra missione, in un altro Paese, che renda più pesante la busta paga con le indennità di missione. Per tenere in piedi una forza armata di professionisti di cui la politica poco sa e poco vuole davvero sapere (il nostro ultimo ministro della Difesa, Antonio Martino, come del resto buona parte dei nostri parlamentari, non aveva prestato servizio militare), quest´anno il Paese ha speso poco più di 14 miliardi di euro (lo 0,96% del Pil). Per pagare i salari della truppa e darle da mangiare, per provvedere al carburante necessario ad accendere i motori dei nostri carri armati, aerei, navi, ad acquistare le cartucce con cui tenere in esercizio i soldati, a saldare le bollette di luce, acqua e gas delle caserme, ogni giorno se ne sono andati 39,6 milioni di euro. I livelli di spesa resteranno simili nel 2008: poco più di 15 miliardi di euro (l´1,3% del Pil), con un leggero incremento che conferma quella di centro-sinistra come la maggioranza di governo con cui le risorse destinate alla Difesa sono riprese a crescere dopo i tagli della gestione Martino (nel 2006, la spesa militare era lo 0,82% del Pil). Troppi soldi, per i pacifisti. Ancora troppo pochi per i nostri Stati Maggiori e per l´attuale ministro della Difesa, Arturo Parisi, che al Parlamento ha indicato in Francia (1,6% del Pil) e Inghilterra (2,2% del Pil) i Paesi cui guardare. Il ragionamento, per come lo prospetta l´attuale capo di stato maggiore uscente della Difesa, l´ammiraglio Giampaolo Di Paola (vedi l´intervista pubblicata in queste pagine), è a suo modo semplice. La politica dica quali sono le risorse disponibili e gli stati maggiori spiegheranno che cosa è possibile fare e cosa non lo è. Allo stato, la politica ha chiesto un´ulteriore contrazione del nostro modello di difesa. Da 190 a 160 mila militari. E il passaggio promette di non essere indolore (gli Stati maggiori stanno discutendo dei tagli dall´inizio del 2007 e non hanno ancora definito un quadro da sottoporre al governo). Già oggi, per sostenere gli impegni in almeno tre teatri di operazioni internazionali, gli uomini impiegati in turni di rotazione arrivano a circa 40 mila, assorbendo di fatto il meglio delle nostre forze armate. Vale a dire, circa sei delle nove brigate e mezzo in cui è articolata l´intera nostra forza terrestre (per dare un´idea, quando le nostre erano ancora forze armate di coscritti e contavano su mezzo milione di uomini, le brigate dell´esercito erano 36). Per consentirne l´efficienza operativa, vengono regolarmente cannibalizzate le unità territoriali (pezzi di ricambio dei mezzi; logistica, materiale di casermaggio) di stanza all´interno dei nostri confini, drenate risorse destinate all´addestramento. Nel dicembre 2006, il ministro Parisi scriveva al Parlamento: «Nel 2007, sarà possibile riprendere, unicamente su livelli minimali, un´attività addestrativa e formativa ridotta, oltre ad una serie di attività tese al ripristino delle capacità operative dello strumento militare nel senso più ampio del termine, nonché al ripianamento delle scorte e degli equipaggiamenti, giunti al livello di guardia nel 2006». Ma il 2006, è stato anche l´anno della crisi del Libano. La politica ha chiesto e ottenuto allora, in nome di una scelta di politica estera e di prestigio internazionale, una missione a guida italiana. Recuperando risorse da un´operazione in Iraq che si stava chiudendo, il fondo del barile è stato raschiato un´ennesima volta. Forse l´ultima, perché il punto di rottura, assicurano oggi gli Stati Maggiori, è stato raggiunto. Come tutti i marinai, l´ammiraglio Giampaolo Di Paola, Capo di Stato maggiore della Difesa ancora per pochi mesi (assumerà in estate la carica di Presidente del Comitato Militare della Nato e verrà sostituito dal Generale dell´Aeronautica Vincenzo Camporini), è ufficiale che parla dritto. «Lei mi chiede se la situazione delle Forze Armate è soddisfacente. Io ritengo che l´attuale quadro di risorse finanziarie messo a disposizione non sia sufficientemente coerente con l´attuale modello di difesa a 190 mila militari. Un modello professionale costa inevitabilmente di più di un modello di leva perché una donna e un uomo che si arruolano fanno una scelta professionale. E a questa scelta devono corrispondere servizi e qualità della vita adeguati. Delle forze armate professionali richiedono risorse in grado di trattenere i nostri soldati, di farli crescere, in un sistema di mezzi e infrastrutture coerenti. E questo costa». Conosce l´obiezione? «Quale?». Che gli Stati maggiori fanno il gioco delle tre carte. Quando parlano di soldi, si concentrano su una sola voce di spesa, i 15 miliardi stanziati nella finanziaria 2008, dimenticando il piano di investimenti per i nuovi armamenti pure previsto in bilancio. Come se si trattasse di spese che non riguardano la Difesa. «E´ un´obiezione fatta da chi sembra ignorare che, in rapporto al Pil, il nostro continua ad essere un Paese che spende meno della media europea. Per quanto riguarda i 15 miliardi di euro, non posso far a meno di osservare che per il 60% verranno spesi in stipendi. E questo dato significa una cosa sola. Che non restano risorse adeguate per altre voci vitali di spesa quali l´ammodernamento dei mezzi e l´acquisizione di nuovi sistemi d´arma, la loro manutenzione e il funzionamento di routine dei reparti. Almeno se vogliamo continuare a pensare a forze armate all´altezza di quelle degli altri alleati europei». Viste le risorse, il parlamento spinge verso un modello di difesa a 160 mila uomini. E´ pensabile? «Tutto è possibile. Basta mettersi d´accordo su quali forze armate si vogliono e su quali debbano essere i loro obiettivi». E lei che risposta si è dato? «La risposta non spetta a me, ma al Governo e al Parlamento. Io constato che l´attuale modello a 190 mila ci ha consentito, pure a costo di sacrifici e di disomogeneità tra i reparti che collochiamo al di là dei nostri confini e quelli di stanza sul nostro territorio, di sostenere con efficienza uno sforzo su tre teatri operativi internazionali di grande complessità come Balcani, Afghanistan e Libano. Aggiungo che forze armate moderne sono quelle capaci di proiettare la soglia della difesa nazionale lontano dai propri confini, là dove si manifestano i rischi per la stabilità che possono riverberarsi sulla nostra sicurezza. L´Italia non è certo uno Stato di ridotte dimensioni ma è un grande Paese europeo di 60 milioni di abitanti». Magari di qualche maresciallo si potrebbe fare a meno. «Il problema del personale esiste ma è più complesso: non riguarda solo i marescialli, ma tutte le categorie, e ce lo portiamo dietro dagli anni dei grandi reclutamenti. Si tratta di adeguare gli organici alle risorse e alle nuove esigenze. Il nodo va sciolto, anche perché non ci consente ad esempio di completare i ruoli dei sergenti e della truppa, il cui lavoro, oggi, è fatto appunto da marescialli. Stiamo ragionando su come fare e proprio nella finanziaria di quest´anno è prevista una norma che dovrebbe facilitare il passaggio di parte degli esuberi al ministero dell´interno». Con la sospensione della leva, qualcuno osserva che la nostra difesa territoriale è di fatto ridotta a poca cosa. Abbiamo un esercito moderno oltremare e mezzi in disarmo nelle nostre caserme. «Occorre superare il concetto di difesa territoriale perché l´Italia è in un sistema di alleanze che le assicurano una efficace difesa in caso di minaccia. Mi sembra che l´Italia possa, con un modello di forze adeguato, difendere la propria sicurezza, i propri valori, concorrendo alla stabilità internazionale. Oggi, quella della sospensione della leva è una scelta coerente con quella effettuata dagli altri paesi europei. Detto questo, proprio perché non abbiamo più Forze Armate di coscritti, ma di professionisti, lo sviluppo del nostro strumento militare deve essere coerente con quello delle forze armate dei paesi presenti nelle alleanze di cui facciamo parte». Magari cominciando anche dalla qualità del reclutamento. I giovani volontari sono i disoccupati del nostro sud. «No, non condivido. Certamente non arruoliamo tutti dei Napoleone e sarei naive se dicessi che sulla scelta non influisce anche la ricerca di una occupazione. Ma i nostri volontari di oggi hanno mediamente un buon livello di istruzione. Detto questo, si può e si deve fare di meglio e non a caso parlo di risorse per la formazione e ripeto la domanda: che Forze Armate professionali vogliamo? Io credo debbano essere Forze Armate di qualità». CARLO BONINI