La Repubblica 07/12/2007, pagg.41-42-43 JOHN LLOYD, JOHAN HUIZINGA, FILIPPO CECCARELLI, GIANNI CLERICI, 7 dicembre 2007
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Quando si rispetta il nemico. Una delle molteplici testimonianze del sistema classista britannico era questa massima un tempo alquanto popolare: «Il calcio è un gioco per gentiluomini giocato da mascalzoni, il rugby è un gioco per mascalzoni giocato da gentiluomini». L´espressione è caduta in disuso ai nostri giorni, perché ogni tipo di manifestazione di superiorità di classe non è più politicamente corretto. Quel modo di dire, a ogni modo, era sintomatico di un pregiudizio, in virtù del quale si riteneva che un gentiluomo giocasse sempre secondo le regole, tanto che uno sport violento come il rugby poteva essere tenuto sotto controllo applicando i regolamenti, mentre un gioco relativamente blando come il calcio poteva degenerare e diventare violento per le persone che lo giocavano.
L´assunto secondo il quale le élites hanno buone maniere e le masse ne sono prive è vecchio quanto il mondo e comune, per certi aspetti, a tutte le società, ma la forma che ha assunto nella Gran Bretagna del XVIII e del XIX secolo ha avuto il suo peso, in quanto ha pesantemente inciso sullo sviluppo degli sport come fenomeni di massa. I codici etici del vero gentleman, evolutisi nel XVII secolo, erano concepiti per regolamentare il comportamento all´interno di una nuova classe: l´upper class, formata da aristocratici che traevano guadagno essenzialmente dalle loro terre, ma che vivevano almeno una parte dell´anno in città, frequentando club, giocando d´azzardo a carte e di tanto in tanto ingaggiando duelli. Per questi individui – nella vita dei quali la religione cristiana era qualcosa di assolutamente marginale – le regole si rendevano necessarie per disciplinare i loro rapporti. I club avevano regolamenti. Il gioco d´azzardo aveva regole. Il duello era soggetto a disposizioni precise. Quando nella seconda metà del XVIII secolo nacquero le prime grandi scuole private per l´istruzione e l´educazione dei gentleman, gli sport competitivi si diffusero per sviluppare al meglio il fisico. E anche questi avevano le loro regole.
Le regole si ispiravano a differenti ordini morali. In buona parte erano una reinterpretazione dei codici delle grandi civiltà della tradizione classica, l´ateniese e la romana, che fornirono all´upper class britannica del XVIII e del XIX secolo una buona parte del suo universo morale e intellettuale, esaltando le virtù del coraggio virile, della leadership e dello stoicismo. Le regole risentivano anche dell´influenza della cavalleria medievale, e in particolare dei codici comportamentali elaborati, soprattutto in Francia, dai cavalieri e dagli aristocratici. In parte si ispiravano ancora al cristianesimo, quel cristianesimo protestante che nella Gran Bretagna del XVIII secolo era stato disciplinato e in parte secolarizzato, e che predicava che il forte non deve mai opprimere il debole e che la cortesia è tenuta da Dio in grande considerazione. Da tutte queste influenze nacque spontaneo lo slancio a considerare lo sport non soltanto come un mezzo per tenere in esercizio il fisico o per dimostrare forza e abilità superiori a quelle degli avversari, ma soprattutto come un mezzo per mettere in mostra la propria virtù pubblica.
Esempio più autorevole di altri fu il cricket, un gioco che i britannici hanno esportato in tutto l´impero in Paesi quali l´India, l´Australia, le Indie occidentali e parte dell´Africa, ma che gode di scarso favore nel resto del mondo. Il cricket era nato come sport a tutti gli effetti grazie ai soci di un club privato, il Marylebone Cricket Club (Mcc), che nel 1780 avevano codificato una serie di regole per questo gioco che, pur con qualche modifica, restano tuttora valide. Importante tanto quanto le regole formali era lo "spirito del gioco", concetto che enfatizzava il fatto che il solo rispetto delle regole di per sé non poteva garantire il fair play, ma doveva essere per così dire integrato da un approccio al gioco e agli avversari che desse la massima importanza a un comportamento decoroso.
Le regole pertanto sono nate come emanazione dello spirito e lo spirito era quello di un gentleman, per il quale cortesia e ineccepibile condotta personale contavano forse ancor più della vittoria. Verso la fine del XIX secolo, quando l´Impero divenne il progetto più importante dell´upper class e della classe politica britanniche, il codice di comportamento del gentleman divenne un´ossessione nazionale – immortalata da romanzi come Tom Brown´s Schooldays (romanzo di Thomas Hughes pubblicato nel 1857, NdT) e dal componimento di un poeta oggi in linea di massima dimenticato, Sir Henry Newbolt. La sua poesia, intitolata Vitai Lampada, esalta in che modo la perseveranza e la tenacia apprese giocando a cricket riescano a infondere coraggio a un uomo impegnato in guerra. La ripetizione dell´ultimo verso della poesia, "Play up! Play up! And play the game!" (giocate, giocate, continuate a giocare) è stata per generazioni l´incitamento e una sorta di vera e propria ingiunzione per gli studenti.
Quando, a partire dal 1880, lo sport – e specialmente il calcio – iniziò a diventare professionista e a fornire ai giovani uomini della classe lavoratrice la possibilità di fare carriera e (ai nostri tempi) di raggiungere talora anche fama e ricchezza, la tradizione del fair play del vero gentleman parve subire un duro colpo. Giocare per soldi non era ciò che lo sport avrebbe dovuto essere, per i gentleman. Si andò così sviluppando una sorta di snobismo che tuttora permane e pervade lo sport professionale, specialmente il gioco del calcio, e che spiega perché per buona parte esso è rimasto un gioco per la classe lavoratrice.
Lo snobismo trova quasi sempre i propri presupposti nei preconcetti e nei pregiudizi. Il calcio in fondo è stato il mezzo col quale vaste masse di persone hanno appreso ad apprezzare lo sport giocato secondo le regole. Che fosse un istinto civilizzante lo dimostra il curioso incidente verificatosi il primo inverno della Prima guerra mondiale, quando alcuni soldati britannici e tedeschi usciti dalle rispettive trincee organizzarono una partita a pallone. Quella fu una reazione spontanea da parte di soldati comuni, biasimata e immediatamente interrotta dai gentleman loro ufficiali superiori.
Non è tuttavia un pregiudizio affermare che il calcio multi-milionario ha reso la vittoria di gran lunga più importante dello "spirito" del calcio. Vittoria equivale a ricchezza, fama, gloria. Sconfitta significa uscire di scena. La nostra epoca di dipendenza mediatica premia lautamente i vincitori, ma ai perdenti offre unicamente l´oblio. Anche l´imbroglio ha sempre fatto parte dello sport e oggi certo non meno che in passato, considerato che le poste in gioco sono così rilevanti.
Il gesto di domenica scorsa dei giocatori della Fiorentina è stato, in fondo, un gesto semplice, sbocciato in segno d´affetto per l´allenatore dei viola, Cesare Prandelli, che ha appena perso la moglie, morta di tumore. Ma si è trattato di un gesto elegante e raro. Ha significato un ritorno al miglior "spirito" sportivo, il riconoscimento che, in definitiva, è un segno di civiltà tenere a freno l´aggressività dei giovani giocatori e far sì che dopo aver giocato tra loro calmino l´animosità e l´ostilità delle tifoserie, così che queste applaudano le loro squadre, invece di scatenare le loro truppe. Non resta che augurarsi che lo "spirito dei viola" si diffonda al di là della loro città e che Firenze diventi famosa per la civiltà del suo calcio, come lo è per la sua arte. Ciò presuppone, in ogni caso, di saper ammettere l´importanza di quel gesto e di volerlo emulare. Se ciò accadesse, per il calcio e per la società intera si tratterebbe di un importante passo avanti.
JOHN LLOYD
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FAIR PLAY. Fair play non è altra cosa che l´equivalente, espresso in termini di gioco, di buona fede. Il "guasta gioco" guasta la cultura stessa. Se questa qualità ludica vorrà creare o promuovere la cultura, allora dovrà essere pura. Non dovrà consistere nel pervertimento o nell´abbandono delle norme prescritte da ragione, umanità e fede. Non dovrà essere una falsa apparenza dietro la quale si mascheri un disegno di realizzare date mire con forme ludiche appositamente coltivate. Il vero gioco esclude ogni propaganda. Ha in sé una sua finalità. Stato d´animo e sfera sono quelli della lieta esaltazione, non dell´eccitazione isterica. La propaganda odierna che cerca di sequestrare ogni campo di vita, usa i mezzi destinati a ottenere isteriche reazioni di massa, e perciò non si può accettarla - neppure quando assume forme di gioco - come una manifestazione moderna dello spirito ludico, ma soltanto come una falsificazione.
JOHAN HUIZINGA
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NEL PAESE DEL MELODRAMMA DOVE POCHI SANNO PERDERE. Molto semplicemente, e senza inutili moralismi: in Italia la lotta politica è nata prima del fair play. Parecchio tempo prima, e già il fatto che per nominare il concetto si usi l´espressione di un´altra lingua spiega bene questo vuoto obbligato e funzionale di correttezza, lealtà, eleganza, nobiltà, spirito sportivo, costumato decoro e generosa signorilità nelle faccende della vita pubblica e del potere in particolare.
Con il che, di tutto ciò che quei sentimenti implicano c´è un´estrema penuria, documentata dalla fatica che s´impiega a rintracciare preclari esempi di fair play nell´ormai lunga storia repubblicana.
Miserelli sono dunque i risultati della ricerca. Pressoché solitario, e in anni assai remoti (tra il 1950 e il 1951, come racconta con carte inedite Giovanni Tassani nell´ultimo numero di "Nuova Storia Contemporanea"), viene in mente il Dossetti che, vicesegretario dissidente, sconfitto ed emarginato nella Dc degasperiana, annuncia al segretario Gonella il suo amaro ritiro: ma lo fa quasi di nascosto e sembra che chieda il permesso, continuerà a «sgobbare», «fedelmente e generosamente, senza riserve, con tutte le mie forze e capacità». E così con un bigliettino si congeda dal segretario che bene o male ha vinto la partita: «Che il Signore benedica il tuo e il nostro lavoro».
Fair play tanto più prezioso, si direbbe, quanto meno esibito.
Poi nell´album dei ricordi di un paese che vive di melodrammi e commedie c´è il nulla. A meno di considerare trascurabili frivolezze, tipo Spadolini che faceva collezione di vignette in cui era ridicolizzato, o episodi anche rimarchevoli, eppure segnati da un sovrappiù di furbizia autopromozionale come il presidente Berlusconi che a Montecitorio esce dai banchi del governo per stringere la mano a Giorgio Napolitano.
Perché sì, certo, ogni tanto succede qualcosa che va in quel senso. La visita di Almirante alla camera ardente delle Botteghe Oscure dopo la morte di Berlinguer. Le parole distensive e di comprensione che Barbara Palombelli volle spendere nei confronti di Fini e dell´allora moglie Daniela dopo la conquista rutelliana del Campidoglio. Oppure Marco Pannella, l´incorruttibile, che si prende il lusso cavalleresco di riunire e proteggere centinaia di onorevoli indagati e spaventatissimi ai tempi (1993) del "Parlamento degli inquisiti". E ancora. Una bella lettera, personale e politica, di Claudio Petruccioli a Silvio Berlusconi, poi pubblicata da "Liberal". E certe visite di democristiani ai terroristi in prigione, o certi riconoscimenti di Cossiga alle ragioni e ai sentimenti che mossero tanti comunisti. Ma anche Di Pietro che accorre al capezzale del suo illustre inquisito Cirino Pomicino, come da antica promessa; o Veltroni che rimette una querela a Bossi, dopo l´ictus.
E tuttavia. Senza nulla togliere alla qualità e all´eccezionalità di questi gesti, l´impressione è che per suscitare una qualche forma di fair play sulla scena debbano proiettarsi vicende ad alto impatto mediatico: il carcere, la malattia, la morte.
Dei tanti personaggi interni ed esterni al sistema supremamente elegante e leale - anche con se stesso - è tuttora considerato Gianni Agnelli, che sul modo di stare al mondo aveva una sua concezione effettivamente molto sportiva: «Qualcuno ha vinto, qualcuno ha perso, è la vita». Battutaro prolifico, nonché splendido giornalista mancato, l´Avvocato, che adorava il mondo anglosassone e l´America in particolare, diede in effetti un cospicuo saggio di fair play proprio al momento in cui dopo Sigonella Craxi e Andreotti - di cui almeno un po´ diffidava - ebbero un forte attrito con l´amministrazione Usa. Disse allora: «Right or wrong, my country», giusto o sbagliato, è comunque il mio paese.
Ma perfino l´Avvocato rimaneva un italiano, ragion per cui resta impresso nella memoria anche per alcuni fulminanti compendi di cinismo, uno dei quali l´offrì a Berlusconi che gli aveva chiesto lumi sull´ipotesi di scendere in campo: «Sì, vada pure - gli disse Agnelli, pure con qualche entusiasmo - e ci faccia divertire!». Dopodiché, quando il Cavaliere aveva lasciato il palazzo, spiegò divertito alla sua piccola corte: «Se vince lui, vinciamo tutti. Se perde, perde solo lui». Valutazione che suona come il più sublime, ma francamente anche come il più compiuto ribaltamento di questo benedetto, pur sempre invocatissimo fair play.
Da questo punto di vista la sconfitta è un nodo cruciale, ma anche la conferma di una storica negazione: gli italiani non sanno perdere. Né possiedono la nozione - ed ecco un´altra parola significativamente presa in prestito dagli inglesi - del "good looser", il buon perdente, nessuno mai essendo disposto ad accettare l´altrui vittoria con stile, e nessuno mollando "volentieri" il potere.
Fra tutti i vinti, la palma della rabbia più altisonante va a Giuseppe Saragat che nel 1953 (mancato scatto della legge truffa) riuscì ad attribuire la disfatta nientemeno che a un «destino cinico e baro». Espressione letterariamente preziosa: d´altra parte Saragat era un uomo colto e spesso citava Goethe in tedesco. Ma questo non gli impedì 15 anni dopo, quando era al Quirinale e la lista Psi-Psdi fece flop alle elezioni, un accesso d´ira assai meno letterario, sembra prendendo a calci un televisore (testimonianza di Venerio Cattani).
Dal Faust ai cartoni animati, in effetti, in Italia il passo è breve. Ogni volta che veniva emarginato, e accadeva con qualche frequenza, Fanfani faceva scene pazzesche, scappava da Roma: una volta si pensò volesse farsi monaco e rinchiudersi in un monastero. Anche Occhetto, bocciato al congresso costitutivo di Rimini (1991), abbandonò di corsa i lavori sfidando la tormenta prima di essere intercettato a ringhiare sotto casa: «Cercatevi un altro segretario».
Berlusconi prosegue alla grande l´inveterata tradizione di taccagneria sentimentale e di strenua anti signorilità: quando perde, è sempre colpa di qualcun altro, non c´è volta che il Cavaliere non invochi i brogli, non c´è il caso che con prontezza si complimenti con il vincitore. Nel 1995 arrivò a rinfacciare all´ingrata nazione le spese da lui sostenute per la ristrutturazione dell´appartamento presidenziale di Palazzo Chigi, che peraltro nessuno gli aveva chiesto di realizzare. E una volta tornato al potere, tanto per non mettere le mani avanti, richiamò subito «il buco» nei conti pubblici.
Ma a quel punto, storiograficamente, era già arrivata la Seconda Repubblica. Dopo tutto, il variopinto correntismo democristiano e il cupo centralismo del Pci assicuravano alla politica un´intelaiatura anche emotiva. Adesso, come dice impudicamente Previti, «non si fanno prigionieri». Più che dominata dalle ideologie, la scena pubblica appare da un lato popolata da individui, personaggi, maschere o macchiette e dall´altro da conduttori televisivi, ora di natura leonina ora del genere volpesco-mellifluo, che mettono insieme i protagonisti con l´intento di farli bisticciare sul nulla: per fare audience e venderli meglio agli inserzionisti. I politici in genere ci cascano, dando vita al previsto gallinaio da talk show, ma quando sono in difficoltà alcuni si alzano e abbandonano lo studio, sdegnatissimi.
Più in generale: la vecchia e in fondo perfino rispettabile faziosità nazionale ha ceduto il campo all´intimismo basso, biologico, e alla volgarità. Per cui stampelle, capricci, insulti, gestacci. E allora si sente davvero la mancanza del fair play, ed è un fastidio doppio e rinforzato pensare che in realtà non c´è mai stato.
FILIPPO CECCARELLI
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LE REGOLE NON SCRITTE CHE LO SPORT HA INVENTATO. Iniziamo dal significato. Fair play significa, letteralmente, leale gioco, e cioè gioco leale. Lo Zingarelli lo definisce «comportamento corretto e gentile» e anche «capacità di trattare gli altri nel modo dovuto». De Mauro lo ritiene «comportamento signorile improntato a cortesia». Da questo termine, il mio amico Tommasi trasse il titolo di una trasmissione sportiva, e quando un collega gli chiese ragione della sua anglofilia rispose: «Da noi non esiste termine equivalente».
A simili riflessioni mi ha spinto la decisione della Fiorentina di srotolare un tappeto sull´erba dello stadio Comunale, e di allinearvi i suoi calciatori perché stringessero la mano agli avversari: i vincitori interisti. Decisione - mi dicono amici toscani - vivamente disapprovata da molti tifosi, perché l´iniziativa avrebbe portato male. Pare adesso che la Lega Calcio sia stata favorevolmente impressionata dall´idea, e voglia rendere abituale la stretta di mano finale, comunissima non soltanto nel rugby, ma nell´hockey su ghiaccio, la pallavolo e altri sport.
Abbandonati quarant´anni fa gli stadi quale controfigura di Gianni Brera, incapace di tollerare slogan criminali e comportamenti da codice penale, dubito che simile trovatina da palcoscenico possa cambiare la nostra Gomorra domenicale. Mi parrebbe utile, già che ci siamo, far indossare agli ultras più pericolosi delle belle redingote con collo inamidato, e, ai lanciatori, dei guanti in pelle candida. Esiste peraltro un rimedio che io ritengo migliore, per ovviare alla modesta conoscenza che gli ultras sembrano avere dell´inglese, e quindi del termine fair play. Prima di ogni incontro, le opposte tifoserie dovrebbero selezionare due team di cento rappresentanti. I volonterosi dovrebbero sottoporsi a controlli analoghi a quelli abituali degli aeroporti, e in più al taglio delle unghie, delle mani e soprattutto dei piedi. Superati così i controlli, i due gruppi partirebbero, allo scoppio di un lacrimogeno, dalle due estremità del campo, per scontrarsi nel mezzo, e iniziare vivaci corpo a corpo, che l´arbitro e i suoi aiutanti (ben inteso armati) avrebbero il compito di interrompere soltanto in caso di svenimento o ferite gravi.
Niente di nuovo sotto il sole: qualcosa di simile si svolgeva, guarda un po´, proprio a Firenze, agli albori di quel che venne chiamato Calcio Fiorentino. La palla doveva essere portata a raggiungere la linea dalla quale era scattata la squadra avversaria, e ciò assegnava un punto, giusto come oggi il goal o la meta del rugby. Simile rozza pratica dei tempi eroici non era ignota nemmeno nelle campagne piemontesi, dove si impegnavano vivacissime colluttazioni festive tra paesi vicini, con lo scopo di una conquista simbolica, sempre tramite palla.
Di recente, la televisione ha mostrato in molte case le immagini del mondiale di rugby, vinto dal Sudafrica. Per i non addetti, hanno suscitato stupore vivissimo certi scontri da cavalieri antiqui, (quello dell´inglese Jason Robinson e del capitano dei Wallabies Stirling Mortlock l´ho negli occhi) dopo i quali gli omoni si sollevavano per stringersi la mano, e magari giungere a un buffetto o addirittura a una carezza. Esempio, mi pare, di quel che significa la parola fair play. Io stesso avevo avuto qualche perplessità il giorno in cui ero venuto a trovarmi sulla metropolitana della Porte d´Auteuil, subito dopo la fine di un Campionato di Francia tra il Tolosa e lo Stade Français. Memore di una brutta avventura nei dintorni di San Siro, mi ero fatto piccino piccino, temendo mi si potesse scambiare per un partigiano degli sconfitti. Ma ero rimasto incredulo, nel vedere i sostenitori (rifiuto di definirli tifosi) del vincitore Stade Français offrire birre ai tolosani, e deriderli tanto amabilmente da suscitare un allegro scambio di battute. Fair play anche questo.
Ma non di solo rugby vive il fair play. In seguito a un curioso equivoco, mi avviene di essere invitato annualmente a un test match di cricket che si svolge nello stadio di Melbourne, un campetto da centodiecimila spettatori contiguo a quelli di tennis. Non mi sorprendo più se, alle cinque, mentre in Spagna si uccidono i tori, il match di cricket si interrompe, e tutti, spettatori e giocatori, se ne vanno conversando amabilmente a prendere un tè. Sono un bel po´ di anni che seguo cerimonie simili: e mai, ripeto mai, ho assistito a uno scontro tra quei duri degli australiani e i loro ospiti, spesso giunti dall´India o dal Pakistan, e quindi scuretti. Un dettaglio che è lungi dall´aiutare, nel calcio. Non voglio dire qui che tra i mille giocatori di football non esista assolutamente fair play: giungo addirittura a ricordarne un esempio che val più delle future passatoie di fine match. La volta in cui, all´Olimpico, De Rossi suggerì all´arbitro che quello che appariva un rigore non era tale.
Ma nel mio amato tennis il fair play è da sempre la regola. Si ricorda un intervento presso l´arbitro del mitico barone Von Cramm, che non accettò un successo in Coppa Davis informando di esser stato sfiorato dall´ultima palla avversaria, finita out. Su su fino a Andy Roddick, che giusto due anni fa, sul Centrale del Foro italico, rifiutò la vittoria contro lo spagnolo Verdasco, vittoria dovuta all´errore di un giudice di battuta. E finì per perdere la partita, ma non la stima di sé, e di tutti gli spettatori.
Vorrei chiudere con un piccolo episodio che ho già riferito su queste pagine. Nel corso della prima domenica di Wimbledon si giocava tradizionalmente un match di cricket tra giocatori e giornalisti. Ammesso tra i giornalisti, stavo pavoneggiandomi per l´ormai sicura vittoria, quando all´improvviso i nostri lanciatori iniziarono a passare la palla all´avversario armato di mazza. Incredulo, e anche un po´ infastidito, chiesi al nostro capitano se fossimo ammattiti. «Per nulla - rispose lui - Qui da noi è una tradizione che gli ospiti non possano essere battuti».
Due volte fair play.
GIANNI CLERICI