La Repubblica 08/12/2007, pagg.1-25, 8 dicembre 2007
Sono tornato in patria e ho visto due Afghanistan. La Repubblica 8 dicembre 2007. Ogni volta che metto piede su un podio, qualcuno inevitabilmente alza la mano e mi chiede: «Ma in definitiva, Signor Hosseini, lei è ottimista o pessimista sul futuro dell´Afghanistan?»
Sono tornato in patria e ho visto due Afghanistan. La Repubblica 8 dicembre 2007. Ogni volta che metto piede su un podio, qualcuno inevitabilmente alza la mano e mi chiede: «Ma in definitiva, Signor Hosseini, lei è ottimista o pessimista sul futuro dell´Afghanistan?». Per prima cosa rammento al pubblico che sono uno scrittore. Se mai sono esperto di qualcosa, lo sono della vita interiore dei personaggi che ho creato nei miei libri, il che non mi rende assolutamente qualificato a rispondere come si conviene a domande di questa portata. Ma nel momento stesso in cui rispondo così – dicendo di fatto cose assolutamente vere – so di temporeggiare perché non ho una risposta pronta. Rispondo, sì, ma dando una risposta che in definitiva equivale a una versione verbale di una scrollata di spalle. Dichiarare di essere ottimisti sull´Afghanistan espone alla possibilità di essere accusati di irrimediabile ingenuità. Dentro di me già sento le obiezioni: «Dobbiamo ricordarti forse che nel Sud dell´Afghanistan infuriano i guerriglieri Taliban e che quest´anno sono già 6.000 le loro vittime? Non sai che il tuo Paese produce il 93 per cento dell´oppio di tutto il mondo? Sei consapevole della corruzione che avvinghia il governo, dell´imperante potere che hanno tuttora i signori della guerra, della dilagante povertà delle varie province, del tasso di analfabetizzazione, dell´oppressione delle donne, degli attentati suicidi che sterminano bambini inermi?». Sì, sono consapevole di tutto ciò. Nel settembre scorso ho visitato l´Afghanistan con l´Alto Commissario delle Nazioni Unite per i profughi e con i miei stessi occhi ho visto i grandi muri antiesplosione eretti per le strade di Kabul allo scopo di offrire riparo dagli attentati suicidi. Gente che non ha scuole per i bambini, non ha centri di cura per gli ammalati. Ho incontrato famiglie che vivono con meno di un dollaro al giorno – ammesso e non concesso, ovviamente, che riescano a trovare un lavoro – e che ricevono un misero aiuto o niente del tutto da un governo centrale che tuttora stenta a soddisfare i bisogni di base della popolazione. Forse, allora, dovrei essere pessimista sul futuro dell´Afghanistan, e ciò non esigerebbe neppure un grande sforzo mentale. Ma poi, che dire dei progressi e degli sviluppi positivi realizzatisi negli ultimi sei anni? Quando l´avevo visitata nel 2003, Kabul sembrava una zona di guerra, era una lugubre distesa di macerie senza vita, di edifici rasi al suolo, di case sfondate e qualche muro rimasto in piedi. La Kabul che ho trovato a settembre, al confronto, è di gran lunga migliore: sono stati ricostruiti interi quartieri. Sono rimasto piacevolmente sorpreso dalla visita ad alcune importanti vestigia culturali, come i celebri giardini di Babur, restaurati con risultati eccellenti. In molte città ho visto bambini andare a scuola con l´uniforme indosso. Negli ultimi cinque anni, infatti, sono oltre cinque milioni i bambini che si sono iscritti alla scuola. I campi minati sono in corso di bonifica, la stampa è relativamente libera (benché presa di mira dai conservatori religiosi) e le telecomunicazioni sono in piena espansione. (Perfino nei villaggi più poveri e sperduti ho vissuto la surreale esperienza di vedere alcuni anziani con gli abiti sbrindellati parlare con i telefoni cellulari). Le strade lungo le quali ho viaggiato nell´Afghanistan settentrionale sono state ricostruite, sono in eccellenti condizioni e il traffico lungo di esse è animato, indice che le attività commerciali stanno andando bene. Oltretutto, che messaggio può mai inviare un´irriducibile scetticismo a tutte le persone – siano esse cittadini afgani, siano espatriati – che ogni giorno rischiano la vita nel tentativo di ricostruire quel martoriato Paese? Mi riferisco a persone come Dawood Salimi, un impiegato afgano dell´Unchr conosciuto a Kunduz che ha deciso di rimanere in Afghanistan e aiutare i profughi benché nel luglio scorso un attentato suicida abbia mancato per un soffio il suo bambino di tre anni, e mi riferisco anche ai numerosissimi maestri di campagna, che si rifiutano di abbandonare le loro scolaresche malgrado le minacce di morte proferite dai Taliban. Pessimismo o ottimismo? Forse, molto semplicemente, è troppo presto - ad appena pochi anni di distanza dall´11 settembre - per formulare una domanda del genere su un Paese che si sta ancora riprendendo da circa 30 anni di guerre, carestie, siccità, estremismo, illegalità e che ha un gran numero di profughi. Oppure, forse io e altri competenti esperti di Afghanistan siamo le persone sbagliate alle quali rivolgere queste domande. Forse qualcuno dovrebbe chiederlo direttamente agli afgani. All´inizio di quest´anno la Commissione Indipendente Afgana per i Diritti Umani ha condotto un sondaggio in 32 province afgane su 34, riscontrando che quasi l´80 per cento degli intervistati si dichiarava ottimista sul futuro. L´80 per cento! Penso che si tratti di una percentuale statistica straordinaria (sospetto infatti che in America molti meno di noi direbbero la stessa cosa in relazione al nostro futuro). In sé e per sé questo dato non attesta un miglioramento straordinario nello stile di vita afgano, ma riflette la peculiare e innata capacità degli afgani di continuare a sperare, di essere ottimisti anche di fronte alle difficoltà più insormontabili. E questo, secondo me, costituisce una sorta di imperativo morale rivolto a noi occidentali a non abbandonare un popolo che ha deciso di non arrendersi. L´unica certezza per ciò che concerne l´Afghanistan è questa: senza un impegno effettivo e duraturo da parte degli Stati Uniti e dei loro alleati, l´Afghanistan è spacciato. Quantunque gli afgani vadano fieri della loro sovranità, i sondaggi dimostrano immancabilmente che la maggioranza della popolazione considera positivamente la presenza straniera nel Paese. Gli afgani sanno che se l´Occidente perderà parte della sua risolutezza tutti i progressi così duramente ottenuti si volatilizzeranno all´istante. Suppongo che a quel punto, se qualcuno alzasse la mano per chiedermi che cosa ne penso del futuro dell´Afghanistan, una risposta pronta l´avrei. Per il momento, mi accontento di stringermi nelle spalle. KHALED HOSSEINI