Sergio Romano, Corriere della Sera 12/12/2007, 12 dicembre 2007
Esiste una fotografia scattata all’Avana nel 1959 durante una manifestazione nella piazza da poco ribattezzata Plaza de la Revolución
Esiste una fotografia scattata all’Avana nel 1959 durante una manifestazione nella piazza da poco ribattezzata Plaza de la Revolución. Che Guevara è al centro dell’immagine, circondato da alcuni compagni di battaglia fra cui Augusto Martínez Sánchez, Juan Almeida, Ramiro Valdez. Tutti hanno barbe incolte, casacche e camicie aperte sul collo. Sono tutti «barbudos », come vennero immediatamente chiamati i guerriglieri della Sierra Maestra quando fecero il loro trionfale ingresso all’Avana alla fine di dicembre del 1958. Tutti fuorché un giovane uomo che indossa una giacca militare di buon taglio con indecifrabili mostrine di metallo sui baveri, camicia bianca, cravatta e un basco sulle ventitré. accuratamente sbarbato, ha il labbro superiore attraversato da un paio di baffi sottili e tiene fra le mani un pezzo di carta che sta leggendo attentamente. Raúl Castro, fratello minore di Fidel (il líder máximo è nato nel 1926, Raul nel 1931) ed è stato sin dagli anni della cospirazione una sorta di eterno «numero due». Ha manifestato con Fidel durante le agitazioni studentesche degli anni universitari. Ha partecipato con Fidel all’assalto della caserma Moncada nel luglio 1953. stato in prigione e in Messico con Fidel. Era sulla nave Granma con il fratello e altri 80 compagni quando salpò alla volta di Cuba dal porto messicano di Tuxpan il 25 novembre 1956. Ed è stato da allora vice presidente del Consiglio di Stato, segretario del partito, ministro delle Forze Armate: una sorta di «piccolo Castro», destinato a prendere il posto del fratello maggiore in caso di necessità, come accadde per l’appunto nell’agosto del 2006. Ma ha due caratteristiche che lo distinguono: è stato comunista prima del fratello e non è mai stato «barbudo». Qualcuno sostiene che le differenze siano più sostanziali e che Raúl sia stato spesso in disaccordo con Fidel soprattutto sulle grandi linee della politica economica. Mentre il primo sarebbe pronto a muoversi prudentemente verso una versione cubana del «modello cinese», il secondo continua a coltivare una idea «monacale» del comunismo. Nella sua lunga conversazione con Ignacio Ramonet ha detto che il suo stipendio equivale a trenta dollari mensili, che non possiede un centesimo, che non ha bisogno di nulla e che ha consegnato a Eusebio Leal, sovrintendente della città vecchia, 17.000 regali ricevuti come capo dello Stato. Raúl invece sembra essere un po’ meno puritano. Ama il golf e lo dimostrò l’anno scorso, durante un viaggio in Italia, quando chiese al suo elicottero di atterrare per una visita al migliore campo della costa tirrenica. Ma soprattutto sembra disposto, più del fratello, a incoraggiare il commercio privato dei prodotti agricoli e altre eccezioni alle ferree regole dell’economia statale. Ho visitato un mercato «agropecuario» nei pressi della Avenida de la Americas. Qui alcuni mediatori autorizzati dallo Stato portano i fagioli, i pomodori, i cetrioli, i peperoni, le carote, le cipolle, le patate, le papaia, i mango, le banane, l’ananas, le noci di cocco, e gli altri frutti tropicali che crescono nelle piccole fattorie private dell’isola. Qui, in un tripudio di colori e profumi, i fruttivendoli, gli ortolani e i macellai attirano il cliente vantando la bontà della merce come in un qualsiasi mercato capitalista. Il mediatore paga una tassa allo Stato, il contadino incassa una percentuale del prezzo di vendita e i cittadini dell’Avana trovano quello che ben difficilmente riuscirebbero a trovare in un negozio statale. Ma le maggiori differenze tra i due Castro concernono probabilmente il rapporto con gli Stati Uniti. Nel suo ultimo discorso, il 26 luglio di quest’anno, Raúl ha elencato le molte angherie con cui il governo americano affligge la vita dei cubani, ma ha dato la sensazione di riporre qualche speranza nel cambio della guardia alla Casa Bianca: «La nuova amministrazione dovrà decidere se mantenere questa politica assurda, illegale e fallita, o accettare il ramo di olivo che abbiamo offerto in occasione del cinquantesimo anniversario dello sbarco del Granma». E ha aggiunto: «Riaffermiamo la nostra disponibilità a discutere, su un piede di eguaglianza, il lungo contenzioso con il governo degli Stati Uniti. Siamo convinti che i problemi di questo mondo, sempre più complessi e pericolosi, possano essere risolti soltanto in questo modo». Fidel non sembra essere dello stesso parere. I suoi editoriali sulla prima pagina del quotidiano Granma (una sorta di periodico messaggio alla nazione dalla villa in cui è ricoverato dopo le operazioni dell’anno scorso) hanno un tono alquanto diverso. Il 1˚ agosto, quattro giorni dopo il discorso del fratello, ha scritto: «Nessuno si faccia la benché minima illusione sulla possibilità che l’impero (gli Stati Uniti naturalmente, ndr) negozierà con Cuba». E ha aggiunto che «il popolo americano non è in condizione di frenare lo spirito apocalittico del suo governo». La sola conclusione possibile, quindi, è la resistenza: «Debbo insistere su un punto che i dirigenti della Rivoluzione non possono mai dimenticare: il sacro dovere di rafforzare senza tregua la nostra capacità e preparazione difensiva per esigere dagli invasori, in qualsiasi circostanza, un prezzo impagabile». In un editoriale più recente, alla vigilia del referendum promosso da Hugo Chávez, Castro ha accennato profeticamente alla difficile situazione venezuelana e ha ammonito che Cuba deve essere pronta ad affrontare tempi duri. Non ha torto. Chávez assicura ai cubani, ogni giorno, 98.000 barili di petrolio a un prezzo molto conveniente (25 dollari al barile); e l’interscambio del Venezuela con l’isola ammonta a sette miliardi di dollari, poco meno degli otto miliardi scambiati con l’Urss sino alla fine degli anni Ottanta. Se il disegno di Chávez fallisce, Cuba perde il suo migliore amico e rischia una crisi simile a quella da cui fu colpita all’inizio degli anni Novanta: un rischio in cui Castro, tuttavia, sembra intravedere soprattutto il vantaggio di una nazione povera, ma austera, incrollabile, unita dalla purezza ideologica e dall’orgoglio nazionale. I due fratelli, quindi, parlano linguaggi diversi. Raúl non perde occasione per ribadire l’autorità di Fidel; e Fidel non smette di elogiare Raúl. Ma il disegno del primo non corrisponde a quello del secondo. Questa paradossale diarchia sembra destinata a durare. Le liste dei 614 candidati ai 614 seggi dell’Assemblea nazionale del potere popolare (le elezioni saranno una semplice formalità) sono apparse negli scorsi giorni e contengono il nome di Fidel. E poiché spetta all’Assemblea esprimere il Consiglio di Stato, è possibile che il líder máximo continui a presiederlo. Per un periodo di cui soltanto i medici possono prevedere la lunghezza, Cuba, quindi, continuerà ad avere due leader, due visioni del futuro e alle spalle dei leader, verosimilmente, due partiti: quello delle riforme e quello dell’ortodossia. Il miglior modo per rendere questa situazione più trasparente e l’evoluzione più rapida sarebbe raccogliere il ramoscello di ulivo offerto da Raúl. Ma gli Stati Uniti di George W. Bush, evidentemente, preferiscono il custode della purezza rivoluzionaria, con cui è facile litigare, piuttosto che il fratello riformatore con cui occorrerebbe trovare un accordo. (2/continua)